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"Israele deve sforzarsi di usare il pensiero creativo"

Shlomo Avineri su Haaretz

Con il sogno di Oslo in mille pezzi, Israele deve fare uno sforzo di pensiero creativo

i palestinesi non riconoscono il diritto degli ebrei a uno Stato, così Israele deve fare dei passi in prima persona per migliorare il clima

di Shlomo Avineri, Haaretz, 16 luglio 2014

Nell’inserto di Haaretz dedicato alla Conferenza di Israele per la Pace, Aluf Benn solleva un’importante domanda sulle ragioni del fallimento del processo iniziato 21 anni orsono a Oslo. Non c’è dubbio sul fatto che coloro che lanciarono il processo credevano veramente che avrebbe portato a un compromesso storico tra noi e i palestinesi.

I promotori di Oslo pensavano che il conflitto fosse tra due movimenti nazionali e credevano – come me – che i negoziati diretti tra Israele e l’OLP potessero portare a risolvere le questioni territoriali e strategiche che erano alla base della contesa. Non fu facile convincere gli israeliani, compresi quelli del Partito Laburista, che l’altra parte era un movimento nazionale – uno che certamente presentava aspetti di terrorismo, ma essenzialmente aveva diritto, proprio come il movimento sionista, a esercitare l’autodeterminazione nazionale.

Avevamo torto.

I palestinesi non pensano che si tratti di un conflitto tra due movimenti nazionali. Dal loro punto di vista, è un conflitto tra un solo movimento nazionale – quello palestinese – e un’entità colonialista e imperialista che è destinata a sparire dalla faccia della terra. Quindi, la similitudine che appare nei libri di scuola palestinesi è quella con l’Algeria: non la West Bank come l’Algeria, ma tutto Israele come quello Stato. E gli israeliani spariranno in un modo o nell’altro, proprio come i colonizzatori francesi in Algeria.

La posizione israeliana si riferisce a “due Stati per due popoli”, ma nella versione che ne danno i palestinesi la frase “due popoli” non appare; si parla solo di “due Stati”. Se qualcuno pensa che io stia spaccando il capello in quattro, convincetelo a chiedere a un palestinese che cosa pensa della formula “due Stati per due popoli”. Presto o tardi, riceverà la risposta che non c’è nessun popolo ebraico. Questa è una delle ragioni per cui i palestinesi hanno rifiutato la formula proposta dal Segretario di Stato USA John Kerry che parlava di un accordo tra “due Stati-nazione”.

La verità è che nella narrazione palestinese, gli ebrei non sono né un popolo, né una nazione, ma solo un’entità religiosa; quindi non hanno diritto a uno Stato. Questo è uno dei motivi per il rifiuto totale e intransigente dei palestinesi di riconoscere Israele come lo Stato-nazione ebraico.

Questa è la radice del conflitto: non i confini, non gli insediamenti e nemmeno Gerusalemme. E senz’altro, il rifiuto palestinese di cedere sul principio del “diritto al ritorno” è intrinseco a tutto questo. Ci sono buoni motivi per criticare la condotta del governo Netanyahu mentre Kerry cercava di rivitalizzare i colloqui di pace, ma negare queste ragioni più profonde è disonesto intellettualmente.

Il sionismo, nel 1948, quando accettava il principio di spartizione, portava avanti il convincimento, proprio come gli organizzatori di Oslo, che il movimento nazionale palestinese era un’immagine speculare del pensiero sionista – che questo era quindi un conflitto tra due movimenti nazionali. In questo conflitto il compromesso è possibile. Ma se uno vede il proprio movimento come un’entità che lotta contro un movimento colonialista e imperialista, non ci sono possibilità di compromesso, né giustificazioni morali che tengano.

Che cosa si può fare? Perfino nell’attuale atmosfera politica così difficile, è necessario essere lungimiranti.

Non ci si può aspettare nulla dagli Stati Uniti o dal governo Netanyahu. L’amministrazione Obama è fallita in ogni sfida di politica estera – la Crimea e l’Ucraina, la Siria e l’Iraq, la questione nucleare iraniana, la vicinanza con la Fratellanza Musulmana in Egitto, foriera di alcune delusioni; le dichiarazioni personali di amicizia di Obama con il Primo Ministro turco Recep Tayyp Erdogan, che sta rivelandosi sempre più un autocrate. Il governo Netanyahu è unicamente – e in maniera fallimentare – concentrato su una strategia comunicativa diplomatica che gli permetta di continuare a mantenere lo status quo, il che per chiunque abbia un po’ di raziocinio è evidentemente disastroso.

Questo presenta un’opportunità per l’opposizione, guidata dal Partito Laburista, di proporre un’alternativa. Non c’è ragione di continuare a ripetere il mantra per cui dobbiamo riprendere i colloqui di pace, perché anche nel caso remoto che lo facessimo, è chiaro che, come in passato, l’iniziativa non darà frutti.

Senza rinunciare al principio dei “due Stati per i due popoli”, l’opposizione deve proporre dei passi provvisori da compiere nell’immediato -  non come alternativa a una soluzione permanente, ma come mossa per avvicinarcisi gradualmente. Deve domandare un completo stop alle costruzioni negli insediamenti, l’evacuazione degli avamposti illegali, un riesame – una volta che la tensione si sia calmata – dell’impiego dell’IDF nella West Bank e la rimozione di ciò che rimane del blocco di Gaza (possibilmente in coordinamento con l’Egitto dopo la fine degli attuali combattimenti). Infine, deve proporre un’iniziativa per ridurre la presenza dei civili di Israele nella West Bank sviluppando un piano di indennizzi per la gente costretta a evacuare.

La maggior parte dei coloni israeliani nella West Bank non ci è arrivata per motivi ideologici, nazionalisti o religiosi, ma per opportunità economiche aperte dai sussidi governativi per avere alloggi spaziosi e confortevoli. La sinistra israeliana deve riconoscere che per decine di migliaia di famiglie, la possibilità di trasferirsi in alloggi sussidiati dal governo nella West Bank, in assenza di un adeguato sistema edilizio nell’Israele propriamente detto, rappresentava un volano per la mobilità sociale e un miglioramento significativo delle loro condizioni di vita.

Quindi, a loro bisogna offrire un’alternativa: bisogna dire che chiunque desidera ritornare in Israele riceverà un sostegno governativo generoso. Questo probabilmente creerà una frattura tra alcuni coloni e il governo di destra e potrà trovare il sostegno di coloro che hanno votato per i partiti centristi Yesh Atid e Hatnuah, e dei loro rappresentanti nel governo.

Quelli tra noi che hanno sostenuto Oslo – e che pensano ancora che fosse il passo giusto – devono riconoscere che la salvezza non verrà dai palestinesi. Essi si disinteressano sinceramente alla soluzione dei due Stati per i due popoli, perché non hanno intenzione di garantire la legittimità al diritto ebraico all’autodeterminazione. Possiamo solo contare su noi stessi – non nel senso del nostro potere militare, ma della nostra saggezza, del nostro desiderio di conservare uno Stato-nazione ebraico qui e la nostra capacità di realizzare questo desiderio, perfino in difficili condizioni causate dal radicato rifiuto che le nostre proposte ricevono dall’altra parte.

18 luglio 2014

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