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Israele e Palestina, un dialogo impossibile?

Intervista a Janiki Cingoli, direttore del CIPMO

La Città Vecchia di Gerusalemme

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Dalle reazioni alle recenti dichiarazioni del presidente palestinese Abu Mazen sull'Olocausto, allo stallo nelle trattative con i palestinesi sotto l'egida americana, fino al dibattito sul riconoscimento di Israele come "Stato ebraico". Ne abbiamo parlato con Janiki Cingoli, direttore del CIPMO - Centro Israeliano per la Pace in Medio Oriente.


Pochi giorni fa Abu Mazen ha definito l’Olocausto come “il crimine più odioso contro l’umanità avvenuto nell’era moderna”. Come va interpretata questa dichiarazione?


Ritengo che sia una dichiarazione importante e significativa, lanciata in un momento particolare del processo negoziale, di sostanziale fallimento del tentativo di mediazione del Segretario di Stato USA John Kerry. Trovo sbagliata la reazione del premier Netanyahu e dell’establishment israeliano, che hanno parlato di un trucco, uno stratagemma.
Una cosa sono i contrasti sul contenuto del negoziato; altra cosa è valutare aperture e posizioni che certamente all’interno del mondo arabo risultano significative e coraggiose.
C’è stata una reazione simile anche rispetto alle aperture di Hassan Rohani, Presidente dell’Iran, e del suo Ministro degli Esteri. Leggo che il Ministro è attaccato dagli ultraconservatori iraniani per queste aperture sull’Olocausto. Secondo me è necessario non mescolare la lotta politica e diplomatica per le opzioni che si ritengono sbagliate sul terreno degli interessi del Paese, e questioni come queste, che sono di principio e su cui ogni apertura deve essere valutata positivamente.

Qual è la sua opinione rispetto al dibattito sullo “Stato ebraico”? Il premier Netanyahu sta forzando in questa direzione...

Vorrei notare alcune cose. In passato Israele ha fatto accordi con la Giordania e con l’Egitto  - due trattati di pace - e in nessun caso, neppure nel negoziato con la Siria tentato all’epoca di Barak e poi fallito, era stata avanzata la richiesta di riconoscere Israele in quanto Stato ebraico. Israele è stato riconosciuto dall’ONU nell’atto che ne ha sancito la nascita come Stato focolare per il popolo ebraico - così come si presumeva che ve ne dovesse essere uno per il popolo palestinese. Questa è la legittimazione che Israele ha e non necessita di averne altre. Vi sono però altre questioni dietro questo discorso. Dire che Israele è il focolare nazionale del popolo ebraico è corretto, però non si può prescindere dal fatto che al suo interno esiste un corposa minoranza del 20 % che ebraica non è. Definire lo Stato in quanto ebraico pone il problema dell’identità di questa minoranza. E questa questione non si può risolvere semplicemente concedendo a tutti uguali diritti. Allora potrebbe essere che la maggioranza ebraica venga riconosciuta in quanto tale, se però essa stessa riconosce collettivamente l’esistenza di una minoranza palestinese - e non di singoli individui - a cui siano garantiti delle tutele, dei diritti positivi, un po’ come fa l’Italia con la minoranza tedesca in Alto Adige.
Evidentemente questo è un grande problema, che riguarda anche la questione della fedeltà, della prestazione del servizio civile volontario e, in generale, del ruolo e della collocazione di questa minoranza in un Paese che non ne riconosce l’esistenza. Nell’atto di fondazione dello Stato di Israele c’è un appello ai fratelli arabi palestinesi perché collaborino alla costruzione dello Stato. In quel passaggio si riconosce un’identità collettiva a questa minoranza, tuttavia l’intento è rimasto sulla carta e non si è andati molto oltre. Dietro al riconoscimento dello Stato ebraico ci sono quindi due grandi nodi: la questione dei rifugiati palestinesi, e cioè del cosiddetto “diritto al ritorno”, che era già stata affrontata nelle proposte di Clinton del duemila e anche negli accordi di Ginevra; e quella della minoranza araba palestinese di Israele che deve veder riconosciuto e tutelato il suo ruolo. In questo contesto, ignorare questi problemi parlando soltanto dello Stato ebraico non è certamente accettabile da parte dei palestinesi d’Israele e del mondo arabo.

Qual è lo stato dell’arte dei negoziati?

Mi sembra che il negoziato, e l’iniziativa diplomatica di Kerry, sia, come ha detto il grande giornalista israeliano Nahum Barnea, come l’aereo malese scomparso che tutti si ostinano a cercare nei cieli ben sapendo che è sprofondato. Credo che la causa di questa situazione siano le resistenze delle due parti che, per certi versi, preferiscono lo status quo piuttosto che affrontare molte questioni che il negoziato pone. Credo, inoltre, che alla base di tutto ciò vi sia anche l’approccio sostanzialmente sbagliato degli USA. Già nel primo mandato del presidente Obama avevano creduto di poter risolvere la questione con i diktat; nel secondo mandato, si sono aggrovigliati in una serie di passaggi, circumnavigando le questioni senza andare al sodo con Israele. Di fatto gli Usa non vogliono ricorrere a forzature, hanno fatto proprio il punto di vista israeliano e cercano di convincere Israele che per il suo bene sia necessario fare così. Questo approccio, tuttavia, non porta tanto lontano. Siamo partiti con il proposito di Kerry di giungere a un accordo definitivo di pace entro i nove mesi; in seguito siamo arrivati all’idea di approvare un accordo di principio sulle guideline della possibile intesa, per poi passare a un negoziato che prevedeva la presentazione di un framework americano a cui le parti potevano aderire avanzando riserve - che di fatto significava ricominciare da capo. Infine si è approdati ad un puro e semplice negoziato per continuare il negoziato. C’è stata quindi una gestione incoerente della trattativa, che sconta la debolezza degli stessi Stati Uniti nell’affrontare il nodo delle questioni. Kerry vorrebbe ora presentare una sua proposta di accordo quadro, ma io dubito che Obama glielo permetterà.
È probabile che si vada verso il disimpegno degli USA nell’iniziativa diplomatica nell’area, ripiegando un po’ su quell’atteggiamento di "benigna negligenza" che era stato ipotizzato all’inizio del secondo mandato di Obama, e che poi pareva smentito dall’iniziativa diplomatica del Segretario di Stato e dal viaggio dello stesso Obama in Israele e Medio Oriente.
Quindi, la situazione è segnata da un’estrema incertezza. C’è un arroccamento dentro Israele, che ritiene la controparte palestinese colpevole del fallimento delle trattative, cui si aggiunge uno sbandamento nell’attività negoziale degli Stati Uniti.
Nel medio periodo è molto probabile che Israele, che adesso si sente come liberato da una cambiale in scadenza, paghi un prezzo molto alto perché potrebbe accrescersi il suo isolamento internazionale.
Inoltre, i palestinesi ora sono liberi di adire alle organizzazioni internazionali, compresa la Corte Penale Internazionale dell’Aja e potrebbero arrivare anche proposte di boicottaggio, come per il Sudafrica. Yair Lapid, Ministro delle Finanze israeliano del partito di centro sinistra Yesh Atid, ha dichiarato che un’azione di boicottaggio potrebbe portare danni a Israele per cinque miliardi di dollari.

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