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L'uscita di Teheran dal ghetto internazionale

intervista ad Antonio Ferrari

Firmato a Ginevra uno storico accordo tra il gruppo dei 5+1, ovvero i 5 membri permanenti del Consiglio di Sicurezza ONU insieme alla Germania, e l'Iran di Rohani. L'intesa prevede, in termini generali, una drastica riduzione del processo di arricchimento dell’uranio in cambio di un alleggerimento delle sanzioni. Abbiamo chiesto ad Antonio Ferrari, editorialista del Corriere della Sera, un commento su questo tema. Ecco cosa ci ha raccontato.


Chi è il vero vincitore e quali saranno gli effetti immediati dell’intesa raggiunta con Teheran?

A vincere, con questo accordo, non è soltanto l’Iran. Certo, l’intesa è sicuramente importante per Teheran, che può dirsi soddisfatta, ma il vero vincitore è il Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite, visto il consenso tra i suoi membri permanenti, con l’aggiunta della Germania e di uno spirito nuovo. Firmando l’accordo hanno sostanzialmente vinto tutti, e la reazione scomposta di Israele - o meglio, del suo primo ministro Netanyahu - ha dimostrato la forza di questo brusco segnale lanciato da Barack Obama, che segna uno spartiacque nei rapporti regionali. Israele ha sempre posto l’Iran come il suo primo problema - e in effetti l’Iran è stato un grande problema - ma la nuova disponibilità manifestata dal presidente Rohani lascia intendere che Teheran aveva in realtà estremamente bisogno di uscire dal ghetto internazionale, anche dal punto di vista economico. Questo accordo ora equivale a una cancellazione dell’Iran dall’elenco dei Paesi canaglia, ed è un messaggio mandato anche a un altro alleato americano, l’Arabia Saudita.
In questa grande partita si è creato un bilanciamento tra sciiti e sunniti - l’Iran è sciita, l’Arabia Saudita sunnita - e questo potrà avere effetti su tutta la regione, in particolare sulla guerra di Siria. Non dimentichiamo infatti che l’Iran è il primo alleato regionale di Assad, avendo Damasco un regime alawita, e questa intesa potrebbe aiutare ad arrivare a una composizione per la fine del confitto nel Paese.


Secondo lei, dopo questo accordo può aprirsi un nuovo corso nella politica interna dell’Iran? In particolar modo, potrà cambiare qualcosa sulle condizioni dei dissidenti?

L’Iran è un Paese che non va sottovalutato, un Paese in cui a livello sociale e popolare la democrazia è anche superiore a quella saudita - non dimentichiamo che Teheran è stata per anni alleato dell’Occidente e degli americani.
L’accordo avrà sicuramente delle conseguenze immediate in politica interna, a partire dal miglioramento delle condizioni di vita della popolazione, che a causa degli embarghi è stata costretta a pesanti sacrifici. E quando i cittadini stanno bene, anche certe tensioni si stemperano.
Per quanto riguarda i dissidenti, possiamo solo sperare che la situazione migliori. Senza esagerare con l’ottimismo, memori delle delusioni del passato, si può dire che un clima più disteso, collaborativo e di non sospetto può portare all’attenuazione della rabbia del regime - soprattutto della sua parte conservatrice, primi tra tutti l’ayatollah Khamenei e i pasdaran - nei confronti degli oppositori.
Quando accade qualcosa di positivo come questo accordo, le ricadute possono essere molteplici, e tutte estremamente interessanti. In questo caso credo che qualcosa in Iran possa decisamente migliorare, portando vantaggi per tutti.


Lei ha fatto riferimento a Israele e Arabia Saudita. Cosa può dirci invece degli altri due attori chiave della regione mediorientale, ovvero Egitto e Turchia?

Egitto e Turchia sono in un momento di grave crisi tra di loro, perché Erdogan si rifiuta di accettare quello che sul Corriere della Sera ho definito un “golpe popolare”, ovvero il colpo di stato delle forze armate. Il premier turco continua strategicamente a sostenere il deposto presidente Morsi, e tra i due Paesi si è addirittura arrivati alla crisi diplomatica, con l’Egitto che ha dichiarato persona non grata l’ambasciatore turco e Ankara che ha risposto con ritorsioni a questo atto. I due Paesi sono quindi uniti su alcune cose e divisi su altre.
La Turchia ha commesso una serie di errori, non calcolando quello che potrà diventare veramente il suo nuovo ruolo. In questo momento sta danzando tra i due scenari possibili: uno filo-orientale, rappresentato dal Ministro degli esteri Davutoglu, e uno più filo-occidentale, rivolto all’Europa. Il primo, che sosteneva la necessità di accantonare temporaneamente il discorso sull’adesione all’Unione Europea per concentrarsi sul quadro regionale, in una politica di stampo neo ottomano, ha portato cattivi risultati, con scelte certamente non vincenti come quella sull’Egitto e sulla Siria, dove la Turchia ha inizialmente sostenuto il regime di Assad, per poi schierarsi totalmente contro il dittatore.
Di contro, mi ha colpito molto un segnale, il rilancio del Ministro per le relazioni con l’Unione Europea, Egemen Bagis, e questo mi fa pensare che il secondo scenario stia tornando abbastanza forte. Vista la nuova situazione, e vista l’alleanza NATO con gli Stati Uniti - che può essere offuscata ma non certo messa in discussione - credo che la Turchia dovrà fare qualche passo indietro.


In relazione all’accordo raggiunto con Teheran, Netanyahu ha reagito molto duramente, mentre Shimon Peres si è detto “cautamente ottimista”. Come si svilupperanno ora i rapporti tra Israele e Stati Uniti?

Israele è una cosa, il suo popolo un’altra. Shimon Peres e Netanyahu rappresentano queste due anime: il primo è sempre stato l’anima dialogante, quella con cui gli Stati Uniti vogliono avere forti rapporti, il secondo non si è dimostrato un alleato profondo e capace di ascoltare, e non soltanto di pretendere. Obama con questa soluzione ha fatto capire a queste due anime che Israele continua ad essere l’alleato di ferro in Medio Oriente, ma che tuttavia ci sono dei limiti: la politica estera e gli interessi strategici, economici e politici americani nella regione non possono dipendere soltanto dall’atteggiamento di chiusura del Primo ministro Netanyahu. E io credo che all’interno di Israele ci siano le condizioni necessarie per fare in modo che la parte più frastagliata e chiusa possa avere un certo contenimento, e che la parte dialogante torni a prevalere. In fondo Gerusalemme non può pretendere di andare avanti senza il sostegno americano, e gli Stati Uniti sanno che non possono agire nella regione abbandonando Israele. Il loro è un matrimonio di interesse, in cui le parti devono mettersi d’accordo in qualche modo, e sono sicuro che lo faranno anche in questa occasione.

Martina Landi, Responsabile del coordinamento Gariwo

28 novembre 2013

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