Gariwo
QR-code
https://it.gariwo.net/magazine/editoriali/non-si-muore-solo-nel-mediterraneo-19150.html
Gariwo Magazine

Non si muore solo nel Mediterraneo

di Regina Catrambone

la situazione sul campo dopo le prime intense piogge

la situazione sul campo dopo le prime intense piogge (Foto MOAS)

Il 24 aprile MOAS, con la nave Phoenix, ha intrapreso una missione di osservazione di un mese per comprendere meglio la situazione degli attraversamenti lungo la rotta del Mare delle Andamane. Alla luce delle notizie che riportavano di naufragi e tentativi di mettersi in salvo via mare, MOAS ha ritenuto opportuno contribuire a far luce su un fenomeno di cui si sa pochissimo e che è già costato la vita a moltissime persone in fuga da violenze e persecuzioni.

I Rohingya, minoranza apolide e musulmana insediatasi principalmente nel Rakhine settentrionale (Myanmar), sono storicamente vittime di crudeli persecuzioni da parte del governo birmano. Nel 1982, infatti, i Rohingya sono stati esclusi dai 135 gruppi cui veniva riconosciuta la cittadinanza birmana e nel recente censimento alcuni sono stati obbligati a registrarsi come “Bengali”, mentre altri non sono stati contati affatto - impedendo un accurato conteggio delle loro presenze sul territorio.

Dallo scorso 25 agosto l’escalation di violenze ha raggiunto un livello intollerabile, generando un esodo biblico che ha spinto in pochi mesi quasi 700mila persone in Bangladesh, dove i profughi arrivano dopo terribili viaggi della speranza e in condizioni psicofisiche disastrose. Proprio per questo, lo scorso settembre MOAS ha deciso di avviare una missione in Bangladesh per mitigare la sofferenza di questa minoranza perseguitata e supportare il governo bengalese, che ha messo a disposizione terra e risorse.

Tuttavia, la rotta via terra o attraverso il fiume Naf non è l’unica ad essere usata da chi cerca di mettersi in salvo dopo aver visto la propria casa bruciata, la propria famiglia smembrata e la propria vita cancellata in un attimo. Fin dalle prime fasi dell’esodo si sono diffuse notizie di attraversamenti sporadici ed eventuali naufragi in assenza di un adeguato pattugliamento dell’area e proprio per questo MOAS ha deciso di reagire in modo da raccogliere informazioni e sensibilizzare la comunità internazionale su questo argomento.

Così siamo salpati, e dopo approcci alquanto intimidatori da parte della Marina Tailandese, il 6 maggio, durante una nostra sosta a Langkawi, abbiamo appreso a mezzo stampa che una barca di legno con a bordo fra i 30 e i 70 Rohingya aveva preso il largo da Sittwe (Myanmar) in direzione Malesia. Questo Paese è infatti fra le mete preferite dai Rohingya in fuga, che qui sperano di trovare un lavoro per ricominciare una nuova vita in pace. Non ci restava che elaborare un piano operativo nella speranza di poter prestare soccorso, qualora necessario, a eventuali persone in pericolo. L’8 maggio siamo partiti per l’area di pattugliamento, seguendo varie ipotesi di possibili rotte, ma dopo due giorni abbiamo saputo dai media internazionali che la barca era tornata indietro a causa di un'avaria al motore. Questa notizia, confermata il giorno seguente in via ufficiale, ha comunque destato grossa preoccupazione per le sorti delle persone a bordo. Stando infatti alle notizie disponibili, le forze armate birmane potrebbero aver imprigionato i Rohingya rientrati dopo il fallito tentativo di fuga. L'accesso all'area è ora proibito.

Da un punto di vista operativo, la missione di osservazione lungo la rotta del Mare delle Andamane è stata coronata da pieno successo, benché ci dispiaccia la mancanza di supporto e cooperazione con le autorità dell’area. Rimaniamo inoltre profondamente turbati dalla mancanza di garanzie e tutele certe nei confronti dei Rohingya, soprattutto in vista di un eventuale piano di rimpatri, come si prospetta da tempo. Le poche notizie che arrivano dal Myanmar non sono affatto rassicuranti. Come sottolineato da Yanghee Lee, Special Rapporteur presso il Consiglio sui Diritti Umani delle Nazioni Unite a Ginevra, tutti le informazioni raccolte sul campo portano a parlare di un vero e proprio “genocidio” ai danni della comunità Rohingya e si riferiscono in particolare a violenze e crudeltà indicibili che non risparmiano donne e bambini. Un’altra accusa, ripresa anche dalle Nazioni Unite, era stata lanciata da Amnesty International lo scorso febbraio e reiterata a marzo. Stando ai racconti dei Rohingya in fuga, benché all’apparenza le violenze siano state notevolmente ridotte, di fatto continuano le persecuzioni non solo con furti, stupri e violenze sessuali sistematiche nei confronti di donne e ragazze, ma anche attraverso una politica che mira a far morire di fame chi si ostina a rimanere nel Paese. 

A fronte di un simile scenario, mi chiedo come si possa accettare l’inazione quasi assoluta della comunità internazionale. Nel 2018 credevamo che alcuni orrori non fossero più possibili grazie a una cultura dei diritti umani più o meno diffusa e condivisa. Eppure il conflitto in Siria, le morti sulla rotta del Mediterraneo Centrale e dell’Egeo, l’esodo Rohingya smentiscono queste certezze. La pace, la sicurezza e il diritto a una vita degna non possono essere privilegi esclusivi di chi si trova a vivere nella parte giusta del mondo, né possiamo illuderci che la nostra indifferenza non abbia conseguenze. È necessario cooperare ad ogni livello e in qualunque parte del mondo per uscire da approcci emergenziali e costruire strategie a lungo termine per far fronte ai flussi migratori globali in modo razionale e umano.

Regina Catrambone, Co-Fondatrice e Direttrice MOAS

Analisi di

21 giugno 2018

Non perderti le storie dei Giusti e della memoria del Bene

Una volta al mese riceverai una selezione a cura della redazione di Gariwo degli articoli ed iniziative più interessanti. Per iscriverti compila i campi sottostanti e clicca su iscrizione.




Grazie per aver dato la tua adesione!

Contenuti correlati

Scopri tra gli Editoriali

carica altri contenuti