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Perché la legge polacca “sui campi di sterminio” è così pericolosa

di Daniella Peled

Daniella Peled è Direttore dell'Institute for War and Peace Reporting e ha scritto numerose corrispondenze dal Medio Oriente. Con questo articolo dell'8 settembre su Haaretz, interviene nel dibattito sulla legge del governo di Varsavia che punisce con tre anni di carcere chiunque alluda a un coinvolgimento dei polacchi nella Shoah, per evidenziare i rischi per la democrazia che corrono Paesi come la Polonia, la Turchia, la Russia e, in maniera crescente, anche Israele. 

L'impulso a controllare il dibattito pubblico e legiferare per imporre una narrazione storica nazionale unica – come succede in Polonia, Turchia e Russia – segnala la fragilità della democrazia e della propria identità. Israele è così distante da queste realtà?

La Polonia sta per introdurre una nuova legge che rende ogni riferimento ai “campi di sterminio polacchi” illegale e punibile con tre anni di prigione. Pur essendo progettata per correggere un torto che si sentiva legittimamente come ingiusto, si tratta di una legge pericolosa.

Israele dovrebbe prestare molta attenzione a questi sviluppi, e non solamente per l'ovvia importanza che essi rivestono per le vittime di quei campi e i loro discendenti, ma anche perché è proprio il tipo di legge che presto potrebbe diventare predominante anche nello Stato ebraico.

È comprensibile che i polacchi si sentano profondamente offesi dall'espressione “campi di sterminio polacchi”, che certamente all'inizio era un cinico costrutto della propaganda.

Si crede che sia stato l'ufficiale dell'intelligence della Germania occidentale ed ex collaboratore nazista Alfred Benzinger a uscirsene con questo termine nel 1956, come modo sottile, ma odioso di spostare la colpa dai suoi compatrioti ad altri. Da allora esso è diventato di uso comune, anche se spesso più come una pigra gaffe che come un tentativo di ferire.

Come molti altri Paesi occupati dai tedeschi durante la Seconda Guerra mondiale, anche i polacchi preferirono vedersi come vittime del nazionalsocialismo. Diversamente da alcuni Paesi che avanzano questo punto di vista – di cui l'Austria e l'Italia sono i primi esempi – la Polonia ha davvero diritto a vedersi come vittima del Terzo Reich. E ci sono certamente molti esempi onorevoli di resistenza polacca. Il governo in esilio aiutò certamente a lottare contro i nazisti, e Yad Vashem ha riconosciuto più di 6000 privati cittadini polacchi come Giusti fra le nazioni.

Tuttavia, all'interno del Paese, la polizia collaborava a sorvegliare e dunque liquidare i ghetti, mentre molti comuni cittadini parteciparono entusiasticamente a denunciare gli ebrei e impossessarsi dei loro beni. I polacchi furono anche responsabili dei massacri, incluso quello di Jedwabne del 1941, nel quale più di 300 ebrei furono rinchiusi in una stalla e bruciati vivi, e il pogrom postbellico di Kielce nel 1946, che costò la vita a 42 persone.

Diciamolo chiaramente: i polacchi nostri contemporanei non recano alcuna responsabilità o colpa per i crimini del passato, ma hanno il dovere di ricordare, indipendentemente da quanto ciò possa essere un tema sensibile e particolarmente doloroso da affrontare. Rinforzare una narrazione storica con la legge non solo compromette la verità storica e la nostra comprensione degli eventi, ma ha anche serie implicazioni per il giorno d'oggi.

Eppure, il nazionalista Partito della Legge e della Giustizia al potere non vede perché dovrebbe accettare queste verità scomode. I fatti storici sono sicuramente oggetto di diverse interpretazioni, nel nostro mondo post-fattuale.

Così, il mese scorso, il Ministro dell'Istruzione polacco Anna Zalewska ha dichiarato durante un'intervista alla televisione che il massacro di Jedbawne nel 1941 era “questione di opinioni”. Un sondaggio pubblico a riguardo dei suoi commenti ha rivelato che il 33% dei polacchi era d'accordo con lei.

Non c'è quindi da meravigliarsi che uno degli studiosi più importanti dell'Olocausto a livello mondiale, Jan Tomasz Gross, sia stato minacciato di essere trascinato in tribunale per aver dichiarato che i polacchi erano stati complici nelle atrocità della Seconda Guerra Mondiale.

Mettere in discussione le narrazioni secondo cui una nazione sarebbe stata vittima o innocente presenta chiaramente dei pericoli.

La Polonia ha una sovranità relativamente recente. La sua lunga storia di invasioni e spartizioni significa che c'è un senso nazionale di subire continui attacchi e intimidazioni. Dopo secoli di invasioni e occupazioni, è solo a partire dalla fine del comunismo che questo Paese ha cominciato ad affermarsi come storia di successo democratica, ma con il suo spostamento a destra nelle elezioni dello scorso anno e l'imponente vittoria del Partito della Legge e della Giustizia, una tendenza fastidiosa al populismo nazionalista è ritornata a farsi sentire.

Non è un caso che questa narrazione storica depurata stia venendo imposta proprio mentre il nuovo governo riduce i poteri e l'indipendenza dei giudiziario e la xenofobia fa il suo ritorno nel discorso politico comune.

Naturalmente, l'erosione dei principi liberali democratici e la confusione della politica con la storia non sono qualcosa di squisitamente polacco.

In Turchia, dove il potere si è spostato gradualmente dall'esercito al potere sempre più autocratico di un presidente, si può essere incarcerati con l'accusa di “lesa turchicità” secondo la sezione 301 del codice penale se si afferma il fatto storico del genocidio armeno del 1915. Nella Russia di Vladimir Putin, i blogger sono stati multati e incarcerati per avere menzionato fatti scomodi a proposito delle politiche dell'Unione Sovietica nella Seconda Guerra Mondiale.

E non si tratta solo di legiferare in condizioni di stress per gestire a proprio modo alcuni fastidiosi dettagli della storia.

Il divieto profondamente antidemocratico del burkini in Francia è stato motivato dallo stesso impulso, di salvaguardare e proteggere qualcosa di intangibile che era minacciato – un senso di identità di una nazione. Per quanto questo sia sembrato aggressivo e controproducente, per lo meno era in linea con la peculiare versione repubblicana della laicità e intorno alla questione rimane almeno qualche salutare tensione che ha portato a una disputa legale (che nel frattempo ha avuto successo).

Il dibattito che prosegue negli Stati Uniti sulla legalità o meno di bruciare la bandiera nazionale è un altro caso attinente al nostro argomento. Paesi con democrazie radicate da più lungo tempo e con più fiducia nella propria identità possono rimanere per un po' in bilico senza che l'intero edificio crolli.

Gli Stati più recenti o quelli che stanno ancora sviluppando le proprie tradizioni democratiche sono molto più vulnerabili a qualsiasi forma di degrado.

E questo vale anche per Israele, un altro Stato relativamente recente, che è continuamente invischiato in conflitti interni ed esterni per definire la propria identità.

La Knesset ha già approvato alcune leggi che rendono passibile di sanzioni civili l'invocazione da parte di qualsiasi cittadino israeliano di un boicottaggio di qualsiasi bene prodotto in qualunque territorio controllato dallo Stato. Un'altra legge intende escludere dai criteri di assegnazione dei finanziamenti statali qualunque organizzazione che commemori la Naqba o rifiuti l'idea di Israele come Stato ebraico.

Il Ministro della Cultura Miri Regev vuole che gli artisti convengano di esibirsi negli insediamenti, e le istituzioni che non offrono di queste performance rischiano di trovarsi i fondi tagliati di un terzo.

Tutto ciò funziona perfettamente se l'identità nazionale è più importante della democrazia, ma la legislazione non è la maniera giusta per gestire un senso di minaccia privo di una forma precisa. I Paesi sotto stress possono esserne tentati, ma una democrazia vitale non deve vietare tutto ciò che risulta scomodo, che sia un articolo di abbigliamento, una strana interpretazione della storia o un'opinione politica dissenziente.

I discorsi inoffensivi e perfino scorretti, fino al punto in cui diventano incitazioni alla violenza, devono essere socialmente inaccettabili, ma non illegali. Se la propria narrazione nazionale non è in grado di reggere una messa in discussione, se la propria identità è così fragile che necessita di una protezione legale, allora la democrazia è in crisi.

Verrà un giorno in cui un cittadino israeliano rischierà una multa o perfino una condanna al carcere per avere usato pubblicamente la parola “Nakba”, per esempio? Un giornale potrebbe essere perseguito per un editoriale che si ponga domande circa il futuro di Israele come Stato ebraico?

Per il momento ciò sembra improbabile, ma lo spazio per il dibattito pubblico in Israele si sta progressivamente e costantemente restringendo da alcuni anni ormai. Una volta che un Paese comincia a legiferare per controllare il discorso pubblico, è difficile che si fermi. Inizia con una narrazione storica e finisce con il futuro della democrazia.

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