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Quando il passato ricorda il presente

a Malta con Sami Modiano e Regina Catrambone

Non c’è solo la splendida voce di Hadar Halevy, mezzo-soprano moglie dell’Ambasciatore italiano a La Valletta Umberto de Vito, ad accogliermi al mio arrivo a Malta. 
In una sala della Residenza italiana, infatti, Sami Modiano sta iniziando a raccontare la sua toccante esperienza. Si porta le mani agli occhi, poi alla testa. “Sami Modiano ha visto con questi occhi - dice - Sami Modiano non dimentica”.
Sami è nato a Rodi nel 1930 da papà Giacobbe e mamma Diana. Ha una sorella più grande di tre anni, Lucia, e una grande famiglia, la comunità ebraica dell’isola. A otto anni viene espulso dalla scuola, perché ebreo. Da quel giorno, la vita di Sami cambia completamente. Il padre perde il lavoro, la madre muore nel 1941  Dopo l’8 settembre 1943 i tedeschi occupano l’isola e iniziano a preparare la deportazione della comunità ebraica ad Auschwitz- Birkenau.

È l’inizio del “viaggio più lungo”, il 23 luglio. I tedeschi fanno suonare le sirene per allontanare gli abitanti di Rodi dalle strade e poter caricare indisturbati oltre 2mila ebrei su dei battelli cargo da bestiame. In ogni stiva, ancora sporca per gli escrementi degli animali trasportati, vengono fatte entrare 500 persone, con 5 taniche d’acqua e un bidone vuoto. La stessa - terribile - situazione si ripete dopo l'arrivo dei battelli sul continente, quando i prigionieri vengono caricati sui treni per Auschwitz. La vita di Sami e dei suoi compagni di quel terribile viaggio non conta, il treno è addirittura tenuto fermo per un giorno intero, sotto il sole cocente, per dare la precedenza a un vagone tedesco. Sami descrive l’arrivo ad Auschwitz attraverso scene che abbiamo imparato a conoscere grazie ai racconti di tanti sopravvissuti: i prigionieri tirati giù dai treni, gli uomini separati dalle donne, il pestaggio di chi - come Giacobbe - tenta di non separarsi dai suoi cari, il passaggio davanti a un ufficiale tedesco, un medico - Josef Mengele -, che con un gesto decideva chi doveva morire e chi poteva continuare a vivere. 

Sami e il padre vengono selezionati per lavorare, mentre Lucia viene portata nel lager B. Sami deve riprendere fiato prima di iniziare a parlare della sorella: il suo dolore è ancora forte. “Una sera ho deciso di andare a cercarla - ricorda - davanti al reticolato che divideva il lager degli uomini da quello delle donne. Ho visto una figura che nel buio mi faceva dei segni. Aveva i capelli rasati, era sporca e ridotta a uno scheletro. Mi sono avvicinato e ho sentito il sangue gelarsi. Quella figura era mia sorella. Dov’erano finiti i suoi lunghi capelli? E la sua bellezza, il suo viso dolce?”. Sami e Lucia si incontrano per alcune sere, ma poi la ragazza smette di presentarsi agli appuntamenti con il fratello. “Mia sorella non c’era più”, ricorda Sami asciugandosi le lacrime. Con la morte della figlia, Giacobbe si lascia andare. Dopo poco più di un mese dal suo arrivo ad Auschwitz, Sami è rimasto solo.

All’inizio del 1945, Sami è ormai allo strenuo delle sue forze. Con l’avvicinarsi dell’Armata Rossa, i nazisti diventano ancora più crudeli, e cercano di cancellare le prove più evidenti dello sterminio. Inizia così la marcia della morte, per spostare i prigionieri ancora in vita. Chi cadeva, scivolava o zoppicava veniva eliminato con una raffica di mitra. Sami è sfinito, crolla a terra ma viene trascinato da due compagni verso una montagna di cadaveri e lasciato lì, svenuto ma vivo. Quando si riprende, una dottoressa russa lo sta medicando. È il 27 gennaio 1945. Sami è riuscito a sopravvivere ad Auschwitz. “Ero vivo. Ma non ero felice di essere vivo. Perché io? Perché non ero morto insieme agli altri? “L’ho capito solo anni dopo - ci dice Sami - All’inizio mi rifiutavo di parlare, di raccontare la mia storia. Poi ho capito che era mio dovere raccontarlo ai giovani, per non dimenticare quello che è successo, per trasmettere la memoria alle nuove generazioni, perché io presto non ci sarò più e sarete voi che dovrete ricordare, sarete voi a far sì che tutto questo non succeda più, a fare in modo che i vostri figli non vedano quello che hanno visto i miei occhi”.

Al termine della testimonianza di Sami Modiano, siamo tutti molto toccati dalle sue parole. Insieme a me ci sono Regina e Christopher Catrambone, fondatori di MOAS (Migrant Offshore Aid Station) - l’organizzazione umanitaria specializzata nella ricerca e soccorso in mare - che durante il mio viaggio a Malta mi hanno ospitata sulla Phoenix, la nave di 40 metri con cui hanno iniziato la loro opera di soccorso in mare. “Quando Sami ricordava il suo viaggio da Rodi ad Auschwitz - mi dice Regina - non potevo non pensare alle condizioni di chi oggi rischia di morire in mare per arrivare in Europa. Quello che lui raccontava, anche se con le dovute differenze, era molto simile a quello che abbiamo visto in questi anni durante la missione civile di ricerca, soccorso e assistenza sulle navi che abbiamo creato come MOAS. Se lui parlava del caldo, del trasferimento delle persone dall’hangar al barcone di bestiame, pieno di liquame, di escrementi, con 5 bidoni di acqua e uno vuoto, io ti posso dire che su alcune imbarcazioni di migranti non c’è neanche questo bidone vuoto. Spesso infatti, soprattutto sui pescherecci di legno, in cui il vano motori è pieno di persone, i migranti sono costretti a togliere dall’imbarcazione non solo l’acqua del mare che riesce ad entrare, ma anche tutti i loro escrementi, che spesso devono fare lì sul posto, senza riuscire a spostarsi, a volte senza neanche riuscire a togliersi i pantaloni, perché sono così ammassati da non potersi muovere”. 
Quelle evocate da Regina sono immagini di disperazione, perdita della dignità, di persone che viaggiano per giorni, settimane o mesi in condizioni disumane, dai centri di detenzione libici, al deserto, per poi rischiare la vita attraversando il Mediterraneo.  È quindi per me una grande emozione poter trascorrere del tempo sulla Phoenix, e immaginare le scene descritte da Regina guardando con i miei occhi i luoghi in cui i migranti vengono soccorsi, accolti, curati e assistiti.

È mattina presto quando inizio a scoprire tutti gli spazi della Phoenix, accompagnata da Davide, coordinatore logistico e paziente guida del mio soggiorno maltese. La nave è un vascello di 40 metri, equipaggiato con due gommoni a scafo rigido col doppio motore e più di 20 ciambelloni di plastica dura per il soccorso ai migranti; a bordo cibo, biscotti, latte in polvere, vestiti e medicinali. “Sulla nave abbiamo accolto fino a oltre 400 migranti - mi racconta Davide -. Se il lavoro di soccorso è complicato, non è semplice nemmeno la gestione in navigazione di così tante persone, in condizioni a volte disperate. Cerchiamo sempre di stare attenti a non dividere le famiglie, anche se non è sempre facile o possibile. A volte poi si verificano litigi per il cibo, i vestiti, gli oggetti, ed è molto delicato intervenire in queste situazioni”.

Le procedure di soccorso sono spesso molto pesanti, avvengono di notte o sotto il sole, e c’è il rischio che anche gli stessi soccorritori si sentano male. Una volta estratti dall’acqua i migranti, i gommoni si accostano alla nave, vengono sollevati e i migranti vengono sottoposti al primo controllo medico. Anche per questo, negli anni MOAS ha lavorato con Medici Senza Frontiere Amsterdam, Emergency, Croce Rossa Italiana, riuscendo a garantire cure e assistenza alle persone salvate in mare. Il soccorso è affidato a un equipaggio molto qualificato, perché ogni sbarco deve essere coordinato nel modo più efficace possibile. “Avere uno staff preparato - mi spiega Davide - significa anche che, nonostante lo shock provocato da un soccorso, se necessario al termine di un’operazione sei subito pronto ad andare avanti, ad aiutare altre persone. L’impatto emotivo di ogni salvataggio è fortissimo, ma in quei momenti pensi solo a fare il tuo lavoro. È quando ti fermi che ti crolla tutto addosso”. Ancora più difficili a livello emotivo sono le morti durante le operazioni. L’episodio più grave si è verificato quando 7 migranti sono deceduti durante il soccorso, intossicati dopo aver inalato fumi di carburante scadente.

Sono storie, volti, occhi che i membri di MOAS incontrano ogni giorno, non solo durante il soccorso in mare. In un momento di crisi dell’Europa e dei suoi valori, far conoscere queste vicende “fa capire che non si tratta di numeri, ma di una madre, un padre, una figlia, dei fratelli… Che sono situazioni - mi dicono i ragazzi di MOAS - che potrebbero capitare a chiunque. Spesso poniamo una semplice domanda alle persone con cui parliamo: se vedessi qualcuno che sta affogando nel mare, di fronte a te, cosa faresti?”. 
Il soccorso in mare è fondamentale, ma con il crescere dell’emergenza è sempre più urgente che venga affiancato da una forte risposta europea, politica, a lungo termine e solidale. La priorità è sicuramente salvare la vita ai migranti, ma occorre anche dar loro la speranza di una vita migliore, in modo legale. “Servono corridoi umanitari, che facciano rischiare meno vite e sottraggano queste persone dai trafficanti di esseri umani. I muri non sono una soluzione, sono solo una misura temporanea, e non possono risolvere il problema. Bisogna superare l’indifferenza e assumersi una responsabilità”. E proprio di indifferenza mi parla Regina, tornando a collegare il viaggio dei migranti con le parole di Sami Modiano, e pensando alla mole infinita di dolore che ognuno di noi è capace di infliggere a un altro quando invece di avere empatia verso le persone le trattiamo con indifferenza.

Un parallelo tra passato e presente, tra l’orrore di ieri e le violenze dell’oggi, che è stato anche al centro del discorso della Presidente della Repubblica di Malta Marie Louise Coleiro Preca in occasione dell’incontro con Sami Modiano e un’altra sopravvissuta alla Shoah, Petra Michalski, organizzato a San Anton Palace dalla President’s Foundation for the Wellbeing of Society.
“Sappiamo che la memoria umana è corta - esordisce la Presidente -. Oggi siamo di fronte a populismi, egoismi, divisioni che minacciano la pace delle nostre comunità e nazioni. Parliamo spesso del potere del cambiamento, ma siamo veramente cambiati di fronte alle immagini di Auschwitz, o del piccolo Aylan, dalle bombe di Aleppo, dai giovani uccisi al Bataclan? Queste storie ci hanno realmente trasformati in persone più attente? La memoria dell’Olocausto non può fermarsi alle parole, dobbiamo creare il cambiamento in noi stessi, e poi estenderlo alle nostre comunità, perché lavorare per la pace significa fare tutto ciò che è in nostro potere per creare connessioni tra di noi. L’umanità sta dimenticando le atrocità del passato, e simili atrocità si ripetono anche oggi. Non possiamo sprecare altro tempo e dobbiamo costruire la pace, dobbiamo coltivare una comune cultura del dialogo e costruire ponti tra le barriere che ci dividono”. 

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