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Se a beneficiare del referendum curdo fossero i palestinesi

di Dahlia Scheindlin

Il referendum tenutosi il 25 settembre nel Kurdistan iracheno si è concluso con oltre il 91% di suffragi per l'indipendenza dei curdi. Dure le reazioni di Baghdad e Ankara, con Erdogan che minaccia anche l'opzione militare, anche se secondo il quotidiano La Repubblica potrebbe trattarsi di un "gioco delle parti" mirante a minacciare più i curdi turchi che non quelli di Erbil. Gli USA parlano di "crescente instabilità". Israele è diviso tra chi pensa che l'autodeteminazione dei curdi abbia una matrice comune con il sionismo e chi ritiene che una palese violazione dell'integrità territoriale dell'Iraq "avrebbe fatto sognare il sultano Saladino", come è stato scritto su Haaretz. Il governo israeliano si è schierato con Erbil. Dahlia Scheindlin, docente al Mitvim Institute e consulente politico, spiega che forse, a beneficiare di questo risultato elettorale potrebbero essere i palestinesi

Alla vigilia del referendum del Kurdistan, nella comunità internazionale si sprecano le illazioni su ciò che il voto potrebbe significare per il futuro dell'Iraq, la lotta contro l'ISIS, le dinamiche regionali che coinvolgono Iran, Turchia, Siria e perfino Israele - e le relazioni con e tra gli USA e la Russia.

Da molte parti ci si aspetta che il risultato del referendum pro indipendenza dia il via a negoziati o a richieste rivolte al governo iracheno a proposito della futura autonomia del Kurdistan. Il Parlamento dell'Iraq ha rifiutato la legittimità del voto, e la Corte Suprema ne aveva ordinato la sospensione sulla base del sospetto che violasse la Costituzione. Si sta preparando lo scenario di un conflitto che molti temono causi un'altra guerra in questo Paese tormentato.

Ma il voto solleva un'altra questione importante: come nascono i nuovi Stati?

Si tratta di una vexata quaestio nella scena internazionale del post - seconda guerrra mondiale. Nessuno pensa che i confini debbano essere modificati con la forza, eppure i nuovi Stati spesso nascono da spargimenti di sangue.

Eccezioni isolate, come il pacifico "divorzio di velluto" della Repubblica Ceca e della Slovacchia, o l'indipendenza del Montenegro nel 2006, sono ampiamente superate per numero dagli Stati nati da guerre: le ex repubbliche sovietiche come la Georgia, l'Azerbaigian e l'Armenia e altre hanno combattuto aspri conflitti etno-nazionalistici, le sei (o sette, contando anche il Kosovo) repubbliche emerse dalla dissoluzione della Yugoslavia sono nate dalla violenza genocida, che è stata anche un effetto indesiderato della successiva secessione del Montenegro.

Perfino la costituzione nel 2011 del Sud Sudan, che seguiva un referendum legale in accordo con lo stato sovrano del Sudan, ha provocato uno sprofondamento nel caos violento. La presenza di risorse petrolifere contese tra i due Stati, sia per quanto riguarda il Sud Sudan e il Sudan, sia per quanto concerne la regione curdo-irachena di Kirkuk, non lascia presagire un processo pacifico in Iraq.

Questa reale minaccia di violenza è uno dei fattori che ha portato i Paesi occidentali a opporsi al referendum curdo, ma la loro opposizione si alimenta di interesse egoistico. Infatti è improbabile che gli USA si prendano realmente a cuore gli effetti della guerra sulle genti curde e irachene. Non di meno essi sono preoccupati che tale guerra possa diluire lo sforzo della lotta contro l'ISIS - combattuta generalmente dalle forze dei peshmerga curdi.

Principi come il diritto all'autodeterminazione - che difficilmente si possono mettere in discussione nel caso dei curdi - sembrano assenti dall'approccio dei governi occidentali.

Neppure la "sovranità conquistata", che mostra che il tentativo speranzoso di costruire uno Stato sta funzionando, l'autonomia di governo e istituzioni che si potrebbero perfino definire relativamente democratiche, hanno potuto far venir meno l'opposizione occidentale fino a oggi.

Forse, proprio la "ideologia" che guida le politiche dell'America è una difesa residuale della sua Guerra del Golfo del 2003, dopo la quale l'Iraq sembrava, e ancora oggi sembra, molto simile a uno Stato fallito. Tuttavia l'America vuole che il Paese post-Saddam che ha contribuito a creare sembri un successo, e lo smembramento non rientra nel quadro; non importa che "il sangue curdo [versato nella lotta contro l'ISIS] non si sia ancora asciugato", per usare l'espressione dell'ingegnere delle telecomunicazioni curdo Mohammed Yusuf Ameen, con cui ho parlato venerdì scorso in collegamento con Sulaymaniyah.

La Russia fornisce un'altra versione forte dell'ipocrisia internazionale che riguarda i movimenti indipendentisti. La Russia è stata a lungo l'ostacolo principale alla membership ONU per il Kosovo, dopo che quest'ultimo ha dichiarato unilateralmente l'indipendenza dalla Serbia nel 2008 ed è stato riconosciuto dalla maggior parte dei Paesi occidentali. Tuttavia la Russia è stata solamente felice di riconoscere le regioni secessioniste georgiane dell'Abkazia e dell'Ossetia del sud, dopo una breve guerra con la Georgia condotta nel 2008 - forse come risposta al sostegno dell'Occidente al Kosovo.

Per quanto concerne il referendum del Kurdistan, la Russia è evasiva: un recente accordo petrolifero importante con Rosneft indica che gli interessi finanziari e per le risorse saranno i criteri fondanti delle sue reazioni.

In maniera analoga, la Turchia non si fa problemi a partecipare alla quarantennale divisione di Cipro, e riconosce la "Repubblica turca di Cipro del Nord", ma certamente rifiuta del tutto il secessionismo curdo dal suo proprio territorio. 

In questo ambiente fortemente realista, la risposta di Israele è logica: ha preso la posizione coraggiosa di rompere con gli alleati occidentali per difendere l'indipendenza curda in modo abbastanza esplicito.

L'interesse egoistico è chiaro: Israele ha dei precedenti nel sostegno a forze capaci di indebolire un fronte arabo ostile "unito", come per esempio negli anni '80, quando tacitamente sosteneva Hamas come contrappeso dell'Olp, oppure quando ha combattuto due guerre e mezza nel Libano. Un Iraq più piccolo e debole è coerente con questo approccio.

Uno Stato curdo amico dell'Occidente che possa erodere o frammentare la lotta di potere tra sciiti iraniani e musulmani sunniti nel Medio Oriente presenta un potenziale attrattivo per un'alleanza agli occhi di Israele - edulcorato per l'opinione pubblica dall'argomento per cui esiste un'amicizia storica, illustrata in un recente articolo del New York Times. Dati i potenti alleati internazionali di Israele, il suo sostegno potrebbe in effetti essere significativo per l'avanzamento della causa dell'indipendenza curda.

Ma i curdi potrebbero anch'essi avere un altro alleato, di profilo più basso, nella loro lotta: i palestinesi.

Come mi ha detto Bassem al-Wazir, un uomo d'affari palestinese che ha vissuto e lavorato a Erbil per due anni: "Sono totalmente a favore [dell'indipendenza curda]. Se questa è la loro liberazione nazionale, lasciamogliela fare! Noi in quanto popolo oppresso diciamo: 'Ben per loro, urrà'. Non si può chiudere in gabbia la gente".

Gli esponenti del mondo politico palestinese stanno mantenendo la calma sul referendum, consci delle tensioni concernenti l'integrità territoriale irachena, ma Ghassan Khatib, un professore di Scienza della Politica alla Università Birzeit di Ramallah ed ex ministro dell'Autorità Palestinese, è stato meno cauto.

Egli mi ha confidato domenica che, nonostante l'importanza dell'integrità territoriale irachena, "penso che i curdi abbiano diritto all'autodeterminazione e dovrebbe essere permesso loro di perseguire questo diritto. Difendere il diritto di autodeterminazione per i curdi dovrebbe incoraggiare la gente a seguire lo stesso principio e sostenere il diritto all'autodeterminazione, all'indipendenza e ad avere uno Stato per i palestinesi. Anche se", ha aggiunto, "noi palestinesi siamo abituati ai due pesi e due misure quando si parla di diritti all'interno della comunità internazionale".

Le grandi potenze possono esimersi dal riflettere sulle proprie contraddizioni, ma i movimenti per l'indipendenza in lotta spesso si osservano l'uno con l'altro per rintracciare dei precedenti.

Sarebbe un errore escludere completamente dalla politica internazionale l'influenza delle idee e dell'idealismo, subita anche dalle grandi potenze: la causa curda riscuote simpatie in Occidente primariamente sulla base delle sofferenze storiche dei curdi e del loro diritto all'autodeterminazione. Lo stesso Israele ha goduto di un rapido riconoscimento internazionale dovuto ampiamente a un senso di giustizia storica.

Il sostegno di Israele all'indipendenza curda è coraggioso, anche se dettato pure dall'interesse, ma conquiste rapide potrebbero anche inaugurare precedenti in favore della liberazione nazionale dei palestinesi. Perfino in un mondo freddamente realista, un'idea che ha raggiunto il momento ideale per essere attuata può essere una sfida dura per politiche come l'occupazione militare israeliana, che hanno perso la loro legittimità internazionale.

I palestinesi possono trovare ispirazione nei curdi, per esempio sulla base della costruzione dello stato riuscita dei curdi e del loro sistema politico relativamente democratico, seppure sulla via dell'indebolimento. Anche il resto del mondo, quando noterà il sostegno di Israele alla libertà dei curdi che soffrono da lungo tempo, porrà naturalmente la questione: "E perché non la Palestina?".

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