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Se il clima mette a rischio il pianeta

si può prevenire il nuovo genocidio?

“Il cambiamento climatico minaccia di provocare una nuova ondata di panico legato all'ambiente e all'ecologia. Finora il fardello di questa sofferenza l'hanno sopportato i poveri del Nord Africa e del Medio Oriente”. Ma la “fame di terra” per soddisfare le esigenze di paesi densamente popolati come la Cina o poco coltivabili come quelli arabi e il timore di devastazioni dovute al riscaldamento della Terra potrebbero provocare un nuovo genocidio. E’ l’allarme lanciato dallo storico americano Timothy Snyder, professore all’Università di Yale, specializzato nella storia dell’Europa centro-orientale e dell’Olocausto, nel capitolo conclusivo del suo ultimo libro “Black Earth: The Holocaust as History and Warning”, da poco uscito anche il Italia con il titolo “Terra Nera. L’Olocausto tra storia e presente (edito da Rizzoli). 
Ricostruendo nel dettaglio i fatti storici che portarono all’ascesa del nazismo e allo sterminio degli ebrei in Europa, Snyder vede la "soluzione finale" come una guerra per l'accaparramento di risorse da parte della Germania che, secondo Hitler, necessitava di più terra e cibo per sopravvivere e mantenere il proprio tenore di vita, e per espandersi doveva eliminare gli ebrei, visti come un ostacolo e come "artefici e sostenitori di un ordine planetario corrotto”. 
Negando il ruolo della scienza e dello sviluppo tecnologico nell’agricoltura come mezzi per aumentare e migliorare la produzione dei cereali e altri alimenti di base, Hitler credeva fermamente nella necessità di garantire il "Lebensraum" (spazio vitale) alla Germania tramite conquiste territoriali per nutrire i tedeschi.

La fame di terra

Il concetto di “Lebensraum” è l’elemento che collega il passato, la guerra di sterminio nazista, al presente e al rischio di un possibile nuovo genocidio motivato dall’esigenza di sfamare numeri crescenti di persone o soddisfare stili di vita sempre più elevati, in un ambiente naturale compromesso dall’espansione urbana, dall’inquinamento, dai rischi di eventi catastrofici dovuti ai mutamenti climatici. 
Nel capitolo ”Il nostro mondo” Snyder cita il legame tra i genocidi compiuti degli ultimi decenni e il contesto economico e ambientale in cui sono avvenuti, ricordando che il massacro di un mezzo milione di ruandesi nel 1994 fu preceduto da un calo della produzione agricola per diversi anni e consentì agli hutu di appropriarsi delle terre dei tutsi, mentre in Sudan, nel 2003, a causa della siccità, il governo favorì l’eliminazione delle popolazioni che vivevano di pastorizia per consentire agli arabi di occupare le loro terre.

Oggi la ricerca di terre coltivabili al di fuori dei propri confini riguarda i Paesi del Golfo, ricchi di petrolio, ma poveri di derrate agricole, il Giappone, la Corea del Sud e soprattutto la Cina, che non è in grado di produrre in proprio le materie prime necessarie per garantire il benessere a cui la popolazione aspira. Il continente verso cui si dirigono questi interessi è l’Africa, dove si trovano le maggiori distese di terre incolte e dove la debolezza delle strutture statali e dei governi locali facilita il fenomeno del “land grabbing”: l’accaparramento delle terre considerate “inutilizzate” e quindi vendute a terzi, aziende o governi di altri Paesi, spesso senza il consenso delle comunità locali, che le usano per le proprie necessità alimentari. Un fenomeno che, secondo Oxfam (organizzazione internazionale operante in 90 Paesi per combattere la povertà e garantire a tutti parità di diritti come cittadini) dal 2008, dopo lo scoppio della crisi finanziaria, è cresciuto del 1000% mandando in rovina migliaia di contadini privati della terra, del lavoro e del futuro. La Cina, secondo Snyder, che ha già preso in affitto un decimo del suolo arabile ucraino, è interessata a delle aree coltivabili in Sudan, in concorrenza con altri Stati.

Popolazioni in fuga

Oltre alla caccia alle terre fertili nei Paesi del sud del mondo, anche il “panico ecologico” per gli effetti deleteri dei gas serra sull’ambiente aggrava le tensioni che potrebbero sfociare in conflitti devastanti. La siccità in Africa, le alluvioni sul sud est asiatico, le guerre in Medio Oriente e la povertà diffusa spingono da tempo alla fuga migliaia di persone, dirette verso le nazioni più ricche. Secondo l’ultimo Rapporto annuale sui trend globali, diffuso dall’Alto commissariato dell’Onu per i rifugiati (UNHCR), nel 2014 il numero delle persone sfollate a causa di guerre, conflitti o persecuzioni ha raggiunto un picco di quasi 60 milioni, con un aumento di oltre 8 milioni rispetto al 2013. La Siria è il principale Paese di origine con 7,6 milioni di sfollati e 3,9 milioni rifugiati alla fine del 2014, seguita dall’Afghanistan con 2,6 milioni di rifugiati e dalla Somalia con 1,1 milioni di rifugiati. Gli arrivi in Europa sono saliti di quasi 50% lo scorso anno e un ulteriore incremento è avvenuto dal 2015: secondo l’agenzia europea Frontex, nei primi tre trimestri oltre 710 mila migranti sono entrati nella UE (da 282 mila in tutto il 2014), in gran parte attraverso Grecia (350 mila persone), Ungheria (204 mila) e Italia (129 mila). Un fenomeno inarrestabile che ha colto l’Europa impreparata, incapace di trovare un accordo per ridistribuire i migranti, divisa tra chi ha mostrato una parziale disponibilità ad accogliere e chi ha chiuso le frontiere e costruito nuovi muri. Questa emergenza è destinata a durare alla luce dei dati pubblicati dalla Commissione Europa nelle Previsioni Economiche di autunno appena diffuse, che riportano anche la prima valutazione dell’impatto dei flussi dei richiedenti asilo sulle economie della UE. La Commissione stima che altri 3 milioni di persone arriveranno entro il 2017 (pari a un aumento della popolazione UE dello 0,4%), di cui un milione quest’anno, 1,5 milioni nel 2016 e mezzo milione nel 2017. Supponendo che il tasso di riconoscimento dello status di rifugiati sia del 50% e che tre quarti dei richiedenti siano in età da lavoro, la forza lavoro della UE salirebbe dello 0,1% quest’anno e dello 0,3% nel 2016 e 2017. L’effetto sul prodotto interno lordo (PIL) sarebbe un modesto aumento dello 0,2 – 0,3% nel medio termine e anche l’aggravio per la spesa pubblica sarebbe molto limitato per la maggior parte dei Paesi membri, secondo il rapporto.

Il summit di Parigi sul clima

In attesa di trovare una soluzione comune per la questione dell’immigrazione, la UE è chiamata ora a dimostrare di avere una politica comune sul fronte della tutela dell’ambiente nella Conferenza delle Nazioni Unite sul clima in corso a Parigi dal 30 novembre all'11 dicembre e nota come "Paris 2015 - COP21", essendo la 21esima Sessione della Conferenza delle Parti (Conference of Parties - COP) aderenti alla Convenzione Quadro delle Nazioni Unite sui cambiamenti climatici (United Nations Framework Convention on Climate Change, o UNFCCC). L’obiettivo è il raggiungimento di un nuovo accordo internazionale sul clima, applicabile per tutti i Paesi, per mantenere il riscaldamento globale sotto i 2°C.

La Convenzione Quadro delle Nazioni Unite, adottata durante il Summit della Terra a Rio de Janeiro nel 1992 ed entrata in vigore il 21 Marzo 1994 con la ratifica da parte di 196 Stati, è un accordo universale di principio, che riconosce l'esistenza di cambiamenti climatici di origine antropica (indotti dall'uomo) e attribuisce ai Paesi industrializzati la quota maggiore di responsabilità nel combatterlo. La Conferenza delle Parti (COP), supremo organo decisionale della Convenzione, si riunisce ogni anno in una sessione generale per adottare misure che devono essere approvare all'unanimità dagli Stati Parti o per consenso. Dopo la prima COP a Berlino nel 1995, le tappe più importanti sono state la COP3, durante la quale fu adottato il Protocollo di Kyoto, la COP11 con il Piano di Azione di Montreal, la COP15 a Copenhagen con il mancato accordo per andare oltre il Protocollo di Kyoto, e la COP17 a Durban, quando fu creato il “Fondo Verde per il Clima”. La conferenza di Parigi è stata seguita da quasi 50.000 partecipanti, con 25.000 delegati ufficiali di governi, organizzazioni intergovernative, agenzie delle Nazioni Unite, ONG e rappresentanti della società civile.

In vista dell’appuntamento di Parigi il Consiglio dei ministri UE dell’Ambiente lo scorso 18 settembre aveva adottato una mozione comune, ripresa nel mandato negoziale approvato poi dal Parlamento Europeo il 15 ottobre, che chiedeva di dimezzare le emissioni di gas serra entro il 2050 rispetto ai livelli del 1990, e di ridurle del 40% entro il 2030, puntando a ottenere che almeno il 30% dell’energia da utilizzare provenga da fonti rinnovabili e ad aumentare del 40% dell’efficienza energetica sempre entro il 2030.

Un traguardo che è stato giudicato insoddisfacente dalle organizzazioni ambientaliste Greenpeace, WWF, Climate Action Network Europe, Friends of Earth Europe, Oxfam, Transport & Environment, Change Partnership e Nature Code, che hanno fatto appello ai leader europei perché rivedano al rialzo i target europei per il clima, in modo da riflettere l'urgenza di un passaggio ad un sistema energetico fatto al 100% da energie rinnovabili.

Anche dagli Stati Uniti sono arrivate voci critiche sulle premesse e gli obiettivi della Conferenza di Parigi, considerati insufficienti da Steven E. Koonin, direttore del Centro per le scienze urbane e il progresso presso la New York University ed ex segretario delle scienze presso il Dipartimento dell'Energia Usa dal 2009 al 2011. “La prima realtà scientifica – ha spiegato Koonin sul New York Times” - è che le emissioni di anidride carbonica, i gas serra, si accumulano nell'atmosfera e vi restano per secoli, mentre vengono gradualmente assorbite da piante e oceani. Questo significa che le modeste riduzioni delle emissioni potranno solo rallentare l'aumento della concentrazione atmosferica (di gas serra), ma non la impediranno. Quindi anche se le emissioni fossero ridotte di un eroico 20% dal loro attuale livello nei prossimi 50 anni, ritarderemmo il previsto raddoppio della concentrazione di appena dieci anni, dal 2065 al 2075. Gli impegni presi dagli Stati alla vigilia del vertice di Parigi puntano a ridurre entro il 2030 le emissioni totali di gas serra in media solo del 3% sotto la crescita media dell’8% attuale”. Inoltre, secondo lo scienziato, il riscaldamento prodotto da questo gas nell’atmosfera, non è proporzionale all'aumento della sua concentrazione. Di conseguenza “piccole riduzioni delle emissioni avranno progressivamente sempre meno effetto, mentre la concentrazione nell'atmosfera aumenta”. Koonin ha ricordato poi che la domanda di energia, correlata all’aumento dei redditi e degli standard di vita, salirà di circa 50% per la metà del secolo, trainata dal progresso economico nei Paesi in via di sviluppo e dall’incremento della popolazione a quasi 9,7 miliardi di persone dal 7,3 miliardi attuali.

Il ruolo della scienza

Di fronte alla crescente pressione demografica, allo spostamento di grandi masse di persone e al deterioramento dell'ambiente, a cui questi summit internazionali non hanno saputo finora porre rimedio, appare di grande attualità il richiamo di Snyder alla scelta cruciale tra scienza e ideologia, con cui si confrontarono i tedeschi al tempi del nazismo. “Nel caso del cambiamento climatico sappiamo che cosa può fare lo Stato per contenere il panico e farsi amico il tempo. Sappiamo che è più facile e meno costoso ricavare il nutrimento dalle piante che dagli animali. Sappiano che i progressi della produttività agricola proseguono e che la desalinizzazione dell’acqua è possibile. Sappiamo che un uso efficiente dell’energia è il modo più semplice per ridurre le emissioni di gas…..Gli Stati dovrebbero investire nella scienza in modo che si possa pensare al futuro con calma… Comprendere l’Olocausto è la nostra ultima occasione, forse l’ultima, per salvare l’umanità.”

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