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Silvia Romano: comprendere il fondamentalismo, senza perdere la tenerezza

di Gabriele Nissim

Trovo ingiustificabile che si sia usata Silvia Romano come trofeo politico da esibire come successo della nostra diplomazia o che si speculi sul suo corpo velato per affermare che lei si è piegata all’Islam e quindi non meriti un sentimento di solidarietà.
In entrambi i comportamenti, che apparentemente sembrano così distanti, manca del tutto il rispetto per chi è stato una vittima.

Nel primo caso, chi ha dato in pasto ai media l’immagine di una donna con l’ibaya - indumento che avvolge tutto il corpo, simbolo di un integralismo duro e identitario, come scrive in modo preciso Tahar Ben Jellun su Repubblica - ha mostrato l’insensibilità della politica nei confronti di un dramma umano.
Il nostro governo avrebbe prima di tutto dovuto spiegare all’opinione pubblica chi erano i terroristi che avevano tenuto in ostaggio Silvia Romano per 18 mesi e quali erano i fini della loro politica, ricordando per esempio l’attentato di Mogadiscio che è costato 600 vittime. Così la gente avrebbe avuto gli strumenti culturali per immaginare e comprendere cosa può accadere a chi finisce in mano a dei fanatici il cui scopo ultimo è quello di cambiare l’anima delle persone.

Poi avrebbe dovuto accogliere privatamente la ragazza, senza nessuna cerimonia ufficiale davanti alle telecamere. Non ci voleva una grande intelligenza per comprendere l’effetto che avrebbe avuto sull’opinione pubblica il ritorno di una giovane che prima era una ragazza spigliata e moderna che aveva scelto il volontariato in Kenia, con lo spirito di una giovane democratica europea che si mette al servizio dei più deboli, e poi era ritornata con una nuova identità imposta dal condizionamento spietato e raffinato sulla sua personalità da parte dei terroristi. Si è scelto invece di celebrare il suo ritorno in pompa magna come se fosse un grande risultato della nostra politica, alla presenza del Presidente del Consiglio e il Ministro degli Esteri.
Il governo non ha capito che per salvare una persona dai terroristi non è sufficiente riportarla a casa, ma è necessario proteggerla da ogni forma di speculazione politica. Così, invece di suscitare tenerezza e comprensione nei confronti di un terribile dramma umano che avrà conseguenze per lunghi anni nella vita di una giovane, si è aperta la strada alle cattiverie più meschine.

Silvia Romano da un giorno all’altro si è trasformata da vittima a colpevole.
Lo era perché aveva quell’abito islamico, lo era per la sua conversione, lo era perchè non aveva segni di ferite sul corpo e raccontava di avere agito per libera scelta. Lo era prima di tutto perché non aveva deciso di morire resistendo alla violenza dei terroristi.

Chi oggi scrive queste parole malate sui social, con l’idea di ergersi a paladino della lotta al fondamentalismo islamico, non ha capito nulla non solo del terrorismo, ma delle dinamiche di ogni regime totalitario.

Nella storia, seppure con gradazioni diverse, i regimi totalitari e i fanatici che li hanno sostenuti non solo hanno cercato di eliminare gli esseri umani, ma si sono sempre posti l’obbiettivo di cambiare l’animo delle persone. I nazisti hanno cercato di disumanizzare gli ebrei nei campi di concentramento prima di portarli nelle camere a gas. Primo Levi ci ha raccontato in Se questo è un uomo i kapo e la concorrenza delle vittime per la sopravvivenza; Zygmunt Bauman nel suo testo forse più bello, Modernità ed Olocausto, ci ha spiegato come i nazisti crearono un sistema perfido dove le stesse vittime cooperavano alla loro distruzione; Moshe Bejski al processo Eichmann fece una protesta plateale quando il giudice Hauser gli chiese a bruciapelo perché gli ebrei non si erano ribellati nel campo di concentramento di Plaszow, dopo avere assistito all’impiccagione dei loro compagni. Per tanti anni dopo la Shoah molti ebrei furono costretti a spiegare che la loro passività non era una colpa. Non avevano scelta. Molti guardarono gli ebrei nel dopoguerra con stupore perché non volevano comprendere i meccanismi creati dai nazisti. Così per molti sopravvissuti era motivo di vergogna ricordare la loro resa.

I comunisti, durante i processi staliniani, usavano la tortura e le pressioni psicologiche per spingere le loro vittime ad ammettere delle colpe che non avevano. Era allora stupefacente assistere a confessioni pubbliche dove gli imputati sostenevano quasi con convinzione di essere diventati uno strumento in mano alla reazione e se ne scusavano.
Ecco perché Varlam Šalamov nei Racconti di Kolyma sosteneva che nelle miniere siberiane i carnefici non solo miravano a fiaccare i corpi, ma cercavano di inaridire la loro anima. Così sconfortato Šalamov scriveva che nei gulag la maggior parte dei prigionieri avevano perduto clamorosamente l’esame morale a cui erano sottoposti. Nessuno ne usciva innocente.

E anche i fondamentalisti terroristi, in modi diversi, usano oggi lo stesso schema. Uccidono e fanno attentati con lo scopo di modificare i sentimenti e l’animo delle persone. Vogliono imporre nella società un ribaltamento dei valori: la sottomissione della donna, la rinuncia ad un pensiero autonomo, l’idea che il mondo si divide in sue sole categorie, fedeli ed infedeli all’Islam, la possibilità di decidere chi ha diritto di vivere e chi invece deve essere eliminato in nome della religione.

Come scriveva Baruch Spinoza nel 1670 nel Trattato teologico politico, la posta in gioco di chi si propone di imporre con la forza una verità assoluta di tipo religioso o politico è sempre la conquista della mente.
È quanto probabilmente è accaduto a Silvia Romano, in modi che non conosciamo, nei suoi giorni di prigionia. Il suo istinto di sopravvivenza la ha portata a cedere, senza averne per questo la consapevolezza.
Chi oggi la biasima non ha capito l’essenza del terrorismo fondamentalista.

Silvia Romano è una vittima e nei confronti di ogni vittima, anche se siamo stupiti per dei comportamenti che sfuggono ad una comprensione immediata, dobbiamo esprimere tenerezza.

Potrà ritrovare la libertà solo dopo un lungo tempo, come è accaduto a molti sopravvissuti che si sono ritrovati in situazioni estreme.
E noi dobbiamo aiutarla, ma lo possiamo fare solo se usiamo l’immaginazione e la memoria storica degli orrori del '900 per comprendere i meccanismi del male estremo.

Allora ci accorgeremo delle sue ferite profonde e finalmente potremmo ragionare in un modo nuovo sulla resistenza al fondamentalismo in un modo serio e non propagandistico.

Gabriele Nissim

Analisi di Gabriele Nissim, Presidente Fondazione Gariwo

13 maggio 2020

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