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Siria, il "gioco delle parti"

intervista ad Antonio Ferrari

La proposta russa di impegnare Assad a consegnare le armi chimiche a sua disposizione ha evitato un intervento militare americano, ma non ha sanato le polemiche intorno all'uso dei gas in Siria. Intanto, Putin sembra uscire da questa fase del conflitto come il vero vincitore, tanto che il New York Times ha ospitato un suo editoriale molto critico nei confronti dell'eccezionalità degli Stati Uniti.
Abbiamo chiesto ad Antonio Ferrari, editorialista del Corriere della Sera, un commento su questi temi. Ecco cosa ci ha raccontato.


Oggi Assad canta vittoria per aver evitato l’attacco americano grazie agli “amici russi”. Cosa ne pensa dell’atteggiamento di Putin in questa fase della crisi siriana?


Ora, che Assad canti vittoria mi sembra un po’ eccessivo. Indubbiamente per il momento ha evitato un’azione militare da parte americana e ha consolidato il rapporto con la Russia, da sempre “cerniera internazionale” a sostegno della Siria.
Tuttavia fin dall’inizio sono stato estremamente scettico sulla reale possibilità di un attacco militare, anche quando tutti lo davano per scontato. Obama infatti, che non si sarà impegnato in politica internazionale come quanto si è impegnato in politica interna, ma è comunque un uomo di grande equilibrio, sapeva benissimo che cosa avrebbe significato un’azione militare - anche se limitata. Sarebbe stata una mossa pericolosissima, perché avrebbe messo in moto dinamiche molto complesse e destabilizzanti.
Ho quindi avuto il sospetto che ci fosse una sorta di non detto, non scritto e non patteggiato “gioco delle parti” per sbloccare una situazione completamente incancrenita. Si prendeva cioè a pretesto l’ultimo attacco con armi chimiche - è infatti evidente che tutti erano al corrente dell’esistenza di depositi di gas in Siria, Paese che non ha neanche firmato la Convenzione di Parigi del 1993 - per avviare un processo in cui gli Stati Uniti lanciavano la minaccia e la Russia andava in difesa. Mentre Obama si diceva pronto ad attaccare, Putin doveva per forza reagire, perché la Russia ha un estremo bisogno della Siria, unica base navale nel Mediterraneo, unico regime laico, unico Paese su cui Mosca può esercitare una reale influenza. Tutto si è quindi risolto come deciso, con un accordo di massima russo-americano che dà nuovo peso alle due grandi potenze nucleari. Questo rende possibile il riequilibrio della crisi siriana, che senza una prova di forza e senza l’intervento della Russia avrebbe continuati ad aggravarsi.


Secondo lei la proposta di Putin è realmente credibile? Assad consegnerà le armi chimiche e si arriverà a una soluzione che metta fine alle violenze?

Ho poca fiducia nella fattibilità della proposta, ma credo che - per tutti gli attori coinvolti - questo sia meno importante dell’accordo in sé. Non è molto credibile pensare che Assad sia pronto in poco tempo a consegnare tutte le sue armi chimiche, tenendo anche conto che, in un Paese di media grandezza come la Siria, è possibile che queste vengano nascoste. Credo tuttavia che Damasco mostrerà la sua buona volontà, anche in tempi ragionevolmente accettabili.
Quello che conta di più però è l’accordo stesso tra Stati Uniti e Russia - emblematica è la stretta di mano tra il Segretario di Stato Kerry e il Ministro degli Esteri russo Lavrov -  perché con esso i due Paesi hanno fissato un principio: “da ora in poi discutiamo di questo problema e ne cerchiamo la soluzione”.
Tornando alle dichiarazioni di oggi, è vero che la Russia è riuscita ad evitare un attacco militare in Siria, ma lo stesso Assad è consapevole del fatto che ora la Siria si è consegnata ancor più nelle mani di Putin, e quindi deve stare attenta perché Mosca - alla luce della recuperata immagine internazionale - non tollererà altre azioni disdicevoli. Ecco perché è più importante, anche per la Siria, l’accordo che hanno stretto le due potenze piuttosto che la sua reale attuabilità.


Di fatto, a uscire vincitore da questa trattativa è Putin, che settimana scorsa ha anche scritto un editoriale sul New York Times per criticare l’eccezionalità americana...

Assolutamente sì. Comunque la guardiamo, questa vicenda è estremamente indicativa. Obama non ne esce perdente ma non ne esce sicuramente vincitore. L’unica cosa che lo può consolidare è il fatto che si diffonda l’idea - secondo me realistica - che c’è stato un gioco delle parti e che lui è stato scaltro anche a saperlo condurre.
Dall’altra parte abbiamo Putin, considerato fino a poco fa un personaggio dittatoriale non del tutto credibile sullo scenario internazionale, che con questa vicenda recupera svariate posizioni. Io credo che a questo punto, dopo il disimpegno americano in Iraq e Afghanistan, se le due potenze riusciranno a trovare dei punti di contatto, questo potrà essere la condizione di base per raggiungere un nuovo equilibrio in un mondo che lo stava cercando disperatamente - e senza successo. Quindi io esulto per questo accordo, perché significa che i due grandi tornano davanti a un tavolo e cominciano a discutere - forse non da pari a pari, ma in un contesto in cui uno dà all’altro la patente di partner credibile e l’altro torna a sedersi nel salotto più importante del mondo.


Kerry ha recentemente incontrato Netanyahu per parlare di Siria. La prospettiva di consegna delle armi chimiche di Assad fa subito pensare a un parallelo con il nucleare iraniano. Come si muoveranno ora Stati Uniti e Israele?

Qualcuno sosteneva che a Gerusalemme convenisse lo squilibrio siriano, ma io non ne sono convinto. Israele, che non ha mai messo in discussione apertamente il regime di Assad - l’ultimo uomo laico con il quale poteva comunque avere una sorta di dialogo - vive con l’incubo dell’Iran e del suo nucleare.
Oggi però c’è un nuovo elemento: a Teheran non abbiamo più Ahmadinejad ma Rohani, l’uomo della “grande coalizione” tra la parte conservatrice e quella progressista, che con le sue dichiarazioni si è distanziato nettamente dal suo predecessore. L’amministrazione Obama ne ha visto dei buoni segnali, ed è chiaro che questo confligge con quello che può essere il quadro strategico in cui opera Israele. Netanyahu ha pensato a lungo di dare una dura lezione all’Iran del nucleare, ma da tempo è stato frenato dagli Stati Uniti, e a maggior ragione ora verrebbe fermato più che mai.
Ciò che Israele teme ancora di più del nucleare sono però i filo iraniani, e in particolare l’Hezbollah libanese, che è stato determinante per l’avanzata dei lealisti siriani. Gerusalemme ora vuole evitare che crolli Assad, perché teme l’avanzata degli estremisti sunniti, spera che Hezbollah non diventi troppo forte, perché potrebbe essere una minaccia per Israele stesso, e intanto deve fare i conti con l’amministrazione Obama, che non vuole precludersi la possibilità di intavolare un dialogo con Teheran. Ecco perché il quadro è così complicato, e perché la situazione che si era creta in Siria avrebbe potuto provocare delle conseguenze devastanti.

Martina Landi, Responsabile del coordinamento Gariwo

17 settembre 2013

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