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Siria, un "Iraq accanto all'Iraq"

intervista a Vittorio Emanuele Parsi

In seguito al bombardamento isrealiano su Damasco e alle notizie sull'uso di armi chimiche in Siria, abbiamo raggiunto Vittorio Emanuele Parsi, professore ordinario di Relazioni internazionali all’Università Cattolica del Sacro Cuore di Milano ed editorialista de La Stampa. Ecco le sue riflessioni sulla posizione di Israele e di Hezbollah, sul ruolo di Russia e Stati Uniti e sull'immobilismo della comunità internazionale all'interno del conflitto siriano.
 

Nei giorni scorsi Israele ha lanciato missili su Damasco, sostenendo di non voler colpire la Siria ma piuttosto Hezbollah. Qual è il ruolo di Hezbollah nel conflitto siriano? Quale la posizione di Israele?


Hezbollah sostanzialmente sostiene il regime di Assad, ma è diviso da un dibattito interno. C’è chi ritiene che ormai non convenga più legarsi mani e piedi con il regime, rischiando di perdere il beneficio ottenuto con la resistenza all’invasione israeliana del 2006 e con una sorta di “libanizzazione” del movimento - ovvero un maggior coinvolgimento nella logica interna libanese - e chi ha piuttosto un’ottica regionale e continua a guardare al rapporto con l’Iran.
La posizione di Israele appare attualmente molto short view. Dopo un lungo immobilismo di fronte alle questioni che le rivoluzioni arabe hanno suscitato, Israele reagisce ora nella maniera più prevedibile nonché più rischiosa per lei e per tutti. Bombardare alcuni missili in territorio siriano perché potrebbero finire nelle mani di Hezbollah non solo può riaccendere il livore nei confronti di Israele da parte del Libano, ma non porta neppure nessun risultato concreto a Gerusalemme. C’è solo il rischio di arrivare a una saldatura dei popoli arabi intorno a un comune nemico interno - le loro dittature - mentre il nemico esterno per i paesi arabi continua a essere Israele.
Il pericolo, purtroppo, è che questo sia il primo passo di Israele verso l’ennesima invasione del Libano.


La reazione degli attori regionali all’attacco di Israele è stata piuttosto tiepida. Pensa che sia plausibile l’ipotesi di un “Patto della Mezzaluna” tra Turchia, Arabia Saudita, Emirati Arabi, Giordania e Israele, come ipotizzato da Maurizio Molinari su La Stampa?

Non credo che gli israeliani vogliano rafforzare quel triangolo sunnita-qaedista che va da Falluja, in Iraq, fino alla parte orientale della Siria. Pensare di poter stringere un accordo di questo genere con i qaedisti e con chi li arma è pura follia. Inoltre gli Stati Uniti dovrebbero essere molto preoccupati del fatto che il loro principale alleato nella regione cerchi accordi impliciti con quelle forze di matrice qaedista che dall’Iraq alla Siria costituiscono il vero principale problema dell’America.

Proprio in merito agli Stati Uniti, come valuta la posizione americana, anche in relazione alla linea rossa per l’intervento che Obama ha posto sulla questione dell’uso delle armi chimiche?

Le linee rosse in diplomazia dovrebbero sempre essere utilizzate con cautela, perché una volta tracciate o obbligano all’intervento, quando l’intervento non è neanche voluto, oppure continuano ad autosmentirsi, e questo non è mai positivo.
La dottoressa Carla Del Ponte aveva dichiarato l’esistenza di sostanziali prove dell’uso di Sarin in Siria da parte dei ribelli, e immediatamente le Nazioni Unite hanno insistito per smentire la notizia - con chiaro intento politico - dicendo che non si poteva effettivamente capire chi le avesse usate. Anche di fronte all’ipocrisia di queste dichiarazioni, si capisce che siamo già allo scenario opposto di quello ipotizzato, ovvero dei “cattivi” che usano il gas contro i “buoni”.
Forse sarebbe ora di considerare che in Siria non ci sono i buoni da una parte e i cattivi dall’altra, ma c’è la presenza di cattivi in entrambi gli schieramenti. Sotto le ali dei due schieramenti si trovano civili innocenti e spesso ostaggio delle fazioni, che molto spesso sono costretti a scegliere una o l’altra semplicemente perché hanno più paura dell’avversario che del potere che occupa il Paese.
La cosa più razionale al momento sarebbe stare accuratamente fuori dal conflitto siriano.

Come si potrà evolvere la posizione della Russia, che fino ad ora ha sostenuto il regime di Assad, anche alla luce del viaggio di Kerry a Mosca?

I russi ora si aspettano qualche novità dagli americani, qualcosa che non sia una semplice richiesta di interrompere il sostegno ad Assad. In realtà però Mosca ha già cambiato lentamente la sua posizione, passando da un sostengo incondizionato e quasi automatico al regime a una riflessione più profonda e prudente. C’è infatti la sensazione che la Siria possa diventare un luogo pericoloso, con al potere le formazioni più radicali...Insomma, una sorta di “Iraq accanto all’Iraq”.
Il problema oggi sul tavolo è quello della sostituzione di Assad con qualcos’altro di non sicuro e non definito, che è tanto preoccupante quanto la situazione precedente.
La soluzione, a mio avviso, è cercare una transizione guidata che coinvolga nella discussione tutte le parti in causa.

Un’ultima domanda. Cosa succederà ora in Siria, e come si muoverà la comunità internazionale dopo il suo lungo immobilismo?


La comunità internazionale non ha gli strumenti per fare molto, ed è anche fortemente spaccata al suo interno. Non c’è la minima probabilità di un disco verde per un intervento militare delle Nazioni Unite ed è impensabile un intervento militare unilaterale.
L’unica cosa che si può fare è fare pressione per una soluzione del conflitto che inviti tutte le parti a trattare.
Questo è l’unico modo, perché armando questa o quella fazione non si risolve il conflitto, ma anzi si rischia di prolungarlo ancora per molto tempo. L’esperienza irachena dovrebbe averci insegnato qualcosa in proposito.

Martina Landi, Responsabile del coordinamento Gariwo

10 maggio 2013

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