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Stato di Israele vs. popolo ebraico

di Eva Illouz

La giornalista di Haaretz Eva Illouz ha ripercorso, in un articolo del 19 settembre 2018, la storia dei controversi legami tra Israele, l'Ungheria di Orbán, la Polonia di Morawiecki, l'America di Trump e la Russia di Putin, ipotizzando alcuni scenari futuri che riguardano le comunità ebraiche del mondo, le democrazie occidentali, e l'Unione Europea. Pubblichiamo di seguito le sue riflessioni tradotte.

Israele si è allineato di volta in volta con ogni sorta di regime nazionalista, e perfino antisemita. Quali sono le conseguenze per il mondo ebraico a livello globale?

Un terremoto sta scuotendo silenziosamente il mondo ebraico.

Nel XVIII secolo, gli ebrei iniziarono a giocare un ruolo decisivo nella promozione dell’universalismo, perché esso prometteva loro il riscatto dal loro assoggettamento politico. Attraverso l’universalismo, gli ebrei avrebbero potuto, almeno in linea di principio,essere uguali e pari a coloro che li avevano dominati. Ecco perché, nei secoli che seguirono, gli ebrei parteciparono in numeri sproporzionati alle cause comunista e socialista. Ed ecco perché gli ebrei erano cittadini modello di Paesi, come la Francia o gli Stati Uniti, provvisti di Costituzioni universaliste.

La storia degli ebrei quali promotori dell’Illuminismo e dei valori universalisti, tuttavia, sta entrando in un vicolo cieco. Assistiamo infatti stupefatti a nuove alleanze tra Israele, le fazioni ortodosse dell’ebraismo nel mondo, e il nuovo populismo globale, nel quale l’etnocentrismo e perfino il razzismo occupano un posto innegabile.

Quando il Primo Ministro Netanyahu ha scelto di allinearsi politicamente con Donald Trump prima e dopo le elezioni presidenziali del 2016, alcune persone avrebbero ancora potuto concedergli il beneficio del dubbio. Era chiaro che Trump era circondato da person come Steve Bannon, l’ex leader di Breitbart News, che "puzzava" di razzismo e di antisemitismo, ma nessuno era sicuro di quale direzione avrebbe preso la nuova presidenza. Anche se Trump si rifiutava di condannare gli elementi antisemiti della sua base elettorale o il Ku Klux Klan, che lo avevano entusiasticamente sostenuto, e anche se c’è voluto lungo tempo prima che si dissociasse da David Duke – non eravamo ancora certi della presenza dell’antisemitismo nel discorso e nelle strategie di Trump (specialmente dato che sua figlia Ivanka era una convertita all’ebraismo).

Tuttavia, gli eventi di Charlottesville dell’agosto 2017 non lasciavano più adito a dubbi. I manifestanti neonazisti commisero atti violenti contro manifestanti di gruppi avversi, uccidendo una donna irrompendo nella folla con un’automobile (un atto la cui tecnica ricordava gli attacchi terroristici in Europa). Trump reagì agli eventi condannando sia i neonazisti e i suprematisti bianchi che i loro oppositori. Il mondo fu scioccato da come aveva messo sullo stesso piano i due gruppi, ma Gerusalemme non fece obiezione. Ancora una volta, l’osservatore indulgente (o cinico) avrebbe potuto interpretare questo silenzio come l’atto di obbedienza di un vassallo verso il suo signore feudale (di tuti i Paesi del mondo, Israele è il maggior beneficiario di aiuti militari dagli Stati Uniti). Si poteva legittimamente pensare che Israele non avesse altra scelta che collaborare, nonostante i segni più manifesti di antisemitismo del leader americano.

Questa interpretazione, tuttavia, non è più sostenibile. Prima e dopo Charlottesville, Netanyahu ha corteggiato altri leader che o non sono disturbati dall’antisemitismo o nutrono perfino simpatie per esso, e dai quali Israele non è economicamente dipendente. Le sue concessioni giungono fino al punto di condividere una forma parziale di negazionismo della Shoah.

Prendete il caso dell’Ungheria. Sotto il governo di Viktor Orbán, il Paese mostra segni preoccupanti di legittimazione dell’antisemitismo. Per esempio, nel 2015 il governo ungherese ha annunciato la propria intenzione di erigere una statua per commemorare Bálint Hóman, un ministro dell’epoca della Shoah che svolse un ruolo decisivo nell’assassinio o nella deportazione di circa 600.000 ebrei ungheresi. Non era propriamente un caso isolato. Nel 2016, un’altra statua fu eretta, stavolta come tributo a György Donáth, uno degli architetti della legislazione anti-ebraica durante la seconda guerra mondiale. Non fu pertanto una sorpresa sentire Orbán che utilizzava luoghi comuni dell’antisemitismo durante la sua campagna per la rielezione nel 2017, specialmente contro George Soros, il miliardario filantropo ebreo, ungherese-americano, che supporta le cause liberali, compresa quella per i confini aperti all’immigrazione. Resuscitando lo stereotipo antisemita sul potere degli ebrei, Orbán accusò Soros di nutrire intenti demolitori verso l’Ungheria.

Chi ha scelto di supportare Netanyahu? Non l’ansiosa comunità ebraica ungherese che ha protestato severamente contro la retorica antisemita del governo di Orbán; e nemmeno ha deciso di supportare l’ebreo liberale Soros, che difende cause umanitarie. Invece, il primo ministro ha creato nuove fratture, preferendo alleati politici ai membri del suo gruppo. Ha sostenuto Orbán, la stessa persona che resuscita la memoria del buio dell’antisemitismo. Quando l’ambasciatore israeliano a Budapest ha protestato contro l’erezione dell’infame statua, è stato contestato pubblicamente niente di meno che da Netanyahu.

A quanto ne so, il governo israeliano non ha mai protestato formalmente contro le inclinazioni e affinità antisemite di Orbán. Di fatto, quando l’ambasciatore israeliano a Budapest ha cercato di farlo, è stato zittito da Gerusalemme. Non molto tempo prima delle elezioni ungheresi, Netanyahu si è preso la briga di visitare l’Ungheria, dando quindi un “certificato kosher” a Orbán ed esonerandolo dall’obbrobrio legato all’antisemitismo e al sostegno a figure attive nella Shoah. Quando Netanyahu ha visitato Budapest, ha ricevuto un’accoglienza glaciale dalla Federazione delle Comunità Ebraiche, mentre Orbán l’ha accolto calorosamente. Per rafforzare ulteriormente la loro commovente amicizia, Netanyahu ha invitato Orbán a reciprocare la visita lo scorso luglio, riservandogli l’accoglienza solitamente tributata ai più devoti alleati della nazione.

Le relazioni con la Polonia sono altrettanto sconcertanti. Ricordiamo che la Polonia è governata dal partito Legge e Giustizia, che ha una politica molto determinata contro i rifugiati e sembra voler eliminare l’indipendenza della magistratura attraverso una serie di riforme mediante le quali il governo arriverebbe a controllare il potere giudiziario. Nel 2016, il governo guidato da Legge e Giustizia ha eliminato l’organismo ufficiale preposto a trattare i problemi di discriminazione razziale, xenofobia e intolleranza, sostenendo che tale organizzazione fosse diventata “inutile”.

Fomentati da questa e altre dichiarazioni e politiche governative, i segnali di nazionalismo si sono moltiplicati all’interno della società polacca. A febbraio 2018, il presidente Andrzej Duda ha dichiarato che era pronto a firmare una legge che rendeva illegale accusare la nazione polacca di avere collaborato con i nazisti. Accusare la Polonia di aver collaborato con i nazisti sarebbe stato d’ora in poi un reato penale. Israele inizialmente ha protestato il disegno di legge, ma poi a giugno, Benjamin Netanyahu e il primo ministro polacco, Mateusz Morawiecki, hanno firmato un accordo che esonerava la Polonia da qualsivoglia crimine contro gli ebrei al tempo dell’occupazione tedesca. Israele consentiva anche alla mossa della Polonia di mettere fuori legge l’espressione “campi di concentramento polacchi”. Netanyahu ha perfino firmato una dichiarazione che stipulava il fatto che l’antisemitismo è identico all’anti-polonismo, e che solo un manipolo di tristi individui polacchi si rese responsabile della persecuzione degli ebrei – non la nazione nel suo complesso.

A luglio, la dichiarazione è stata criticata senza reticenze da Yad Vashem, come pure da un gruppo di ventuno storici israeliani, membri dell’Accademia delle Scienze e delle Discipline Umanistiche. Eppure lo stupefacente risultato è rimasto immutato, con Netanyahu, il capo del governo israeliano, che dava il suo sostegno a quella che di fatto significa una versione del negazionismo della Shoah. Il grande appassionato di storia Netanyahu avrebbe dovuto essere consapevole che, come ha detto il commentatore polacco Slawomir Sierakowski, “due terzi dei 250.000 ebrei che scamparono alla ‘liquidazione’ nazista dei ghetti ebraici nel 1945 erano stati uccisi entro il 1945, per la maggior parte da polacchi o con la partecipazione polacca”.

Se Israele ha ancora una posizione morale su un solo argomento (tristemente probabilmente ormai l’unico), questo è sicuramente la Shoah, ma Netanyau ha compromesso tale posizione morale facendo della storia e della memoria dell’Olocausto una merce di scambio e di negoziazione politica. E come se non fosse abbastanza, all’inizio di questo mese, Israele ha ospitato il Presidente delle Filippine Rodrigo Duterte, un uomo che si è paragonato fieramente a Hitler.

Questo è un punto di svolta decisivo per il sionismo, che fa di Netanyahu una sorta di avanguardia, portando il sionismo revisionista che egli afferma di rappresentare allo stadio finale della sua logica storica.

Come dottrina e pratica politica, il sionismo tradizionale social-democratico aveva tentato di trovare e conservare un equilibrio fra tre poli: le comunità ebraiche della diaspora, gli interessi di sicurezza di Israele e le alleanze politiche internazionali con le democrazie forti del mondo (la cooperazione con stati canaglia era per lo più ufficiosa). La memoria della Shoah era il collante morale e ideologico a sostegno e cemento di questa struttura tripartita: il mondo ebraico della diaspora, Israele e le nazioni illuminate erano tutti determinati a non fare ripetere “mai più” un siffatto crimine contro gli ebrei o chiunque altro.

Tuttavia per la prima volta nella storia, Israele sta ponendo la sensibilità e gli interessi delle comunità ebraiche in secondo piano. Israele e il suo governo hanno mostrato perfino una volontà di privare la memoria della Shoah della sua sacralità, e di trattare con antisemiti dichiarati o nascosti. È un fenomeno affascinante, che ci obbliga a chiederci: come mai?

Netanyahu qui propone una nuova visione del sionismo che esige in risposta una nuova strategia internazionale. Netanyahu ha una profonda affinità politica con Trump, Orbán e Morawiecki, e soprattutto con il Presidente russo Vladimir Putin. (Durante il summit Trump-Putin di questa estate a Helsinki, i leader hanno espresso ammirazione reciproca, il che ora è sotto gli occhi di tutti). Netanyahu ha perso interesse nella comunità ebraica Americana per lo più liberale, non solo perché di suo predilige coltivarsi pochi ricchi che non ampi gruppi e comunità (tranne sotto elezioni), ma anche perché nutre un autentico e sincero disprezzo per il liberalismo (la comunità ebraica americana è in prevalenza liberale).

La sua alleanza con i leader più tenebrosi richiamati sopra non è (o non è soltanto) un legame di tipo opportunistico, ma anche uno che si basa sull’affinità. Netanyahu è molto più vicino a questi leader di quanto lo sia a Ze’ev Jabotinsky (che una volta aveva proposto che ogni primo ministro ebreo dovrebbe avere un vice arabo, e viceversa).

Tutti questi leader condividono una visione che enfatizza la preminenza degli abitanti originari delle nazioni, il che vuol dire che si oppongono fortemente alla diluzione etnica, religiosa o razziale del loro Paese attraverso i migranti o ai diritti universalisti. Israele, infatti, è stata a lungo un modello all’avanguardia per ciò a cui questi Paesi aspirano: predicare la cittadinanza basata sull’affiliazione etnica o religiosa (la Legge del Ritorno), rendendo impossibili a livello nazionale i matrimoni tra gli ebrei e le persone di religioni diverse, opponendosi all’immigrazione di non ebrei e al meticciato etnico, anche se cerca di preservare un manto di democrazia (soprattutto perché questo nome gli conferisce molti privilegi): Israele ha affermato per decenni di essere sia democratico che ebraico.

Dal canto loro, Ann Coulter, una guru dell’estrema destra americana, Richard Spencer, president del National Policy Institute, un think tank suprematista, citano spesso Israele come uno stato modello di purezza etnica al quale aspirano (di fatto Israele è lontano dalla “purezza etnica” dato che gli arabi, sia cristiani che musulmani, formano il 20% della popolazione). La legge dello Stato nazione (che privilegia i cittadini ebrei su quelli non ebrei) recentemente promulgata in Israele è una versione più esplicita e radicale del modello etnico di democrazia al quale il Paese aderisce da molto tempo.

Come l’estrema destra americana, ungherese e polacca, Israele vuole ripristinare l’orgoglio nazionale senza la macchia dei critici “odiatori di sé”. Come i polacchi, da vent’anni ormai, sta combattendo una guerra contro la narrazione ufficiale della nazione, cercando di espungere dai libri di testo scolastici i fatti scomodi (come il fatto che gli arabi vennero attivamente cacciati da Israele nel 1948). Pur di soffocare le critiche, il Ministero della Cultura di Israele ora assegna fondi alle istituzioni culturali sulla base della lealtà allo Stato. Come accade in Ungheria, anche il governo israeliano perseguita ONG quale ad esempio Breaking the Silence, un gruppo il cui unico peccato è stato quello di offrire ai soldati un forum per raccontare le loro esperienze military e opporsi alla violenza dei coloni israeliani contro i palestinesi o all’esproprio della terra in violazione del diritto internazionale. Epurare i dissenzienti dalla vita pubblica (come espresso per esempio dal divieto di ingresso nel Paese ai sostenitori del movimento BDS - Boycott and Divestment Sanction, movimento che si propone di punire il governo di Israele attraverso il boicottaggio dei suoi beni e il disinvestimento dalle sue attività, che esiste da 13 anni soprattutto nelle università inglesi, ma risulta molto controverso per il sospetto che neghi alla radice il diritto a esistere di Israele NdT- la negazione dei finanziamenti alle compagnie teatrali o ai film che criticano Israele, etc) è una manifestazione dell’intervento diretto del potere statale.

A proposito di rifugiati, come l’Ungheria e la Polonia, anche Israele si rifiuta di rispettare il diritto internazionale. Da quasi un decennio, Israele non rispetta le convenzioni sui diritti dei rifugiati anche se ne è firmatario. Lo Stato imprigiona i rifugiati nei campi profughi, li incarcera e li rimpatria. Come la Polonia, Israele sta cercando di eliminare l’indipendenza del suo potere giudiziario. Israele si sente a suo agio con l’estrema destra antidemocratica degli stati europei, nello stesso modo in cui ci si può sentire a proprio agio con un parente che sparla e spettegola, perdendo ogni senso di autocontrollo e di buone maniere.

Più in generale, questi Paesi al giorno d'oggi condividono profondamente un punto centrale della loro politica: la paura degli stranieri alle frontiere (occorre specificare, tuttavia, che le paure degli israeliani sono meno immaginarie di quelle degli ungheresi o dei polacchi); riferimenti all’orgoglio della nazione rimasto immacolato nonostante un ambiguo passato, stigmatizzando i critici come traditori della nazione; mettendo fuori legge le organizzazioni per i diritti umani e contestando le norme globali basate su principi morali riconosciuti. Il triumvirato Netanyahu-Trump-Putin ha definitivamente una visione e una strategia condivise: quelle di creare un blocco politico che mini alla base l’attuale ordine internazionale liberale e i suoi protagonisti.

In un recente articolo su Trump uscito su Project Syndicate, lo studioso di diritto Mark S. Weiner ha suggerito che la visione e pratica politica di Trump segua (pur inconsapevolmente) i precetti di Carl Schmitt, il giurista tedesco che aveva aderito al Partito Nazista nel 1933.

“Al posto della normatività e dell’universalismo, Schmitt offre una teoria dell’identità politica basata su un principio che Trump senza dubbio apprezza profondamente fin da prima di intraprendere la carriera politica”, ha scritto Weiner. “Per Schmitt, una comunità politica si forma quando un gruppo di persone riconosce di avere qualche tratto culturale distintivo che affonda le sue radici in ultima analisi nella sua caratteristica geografica… l’habitat di quel popolo. La posta in gioco qui sono posizioni opposte sulle relazioni tra l’identità nazionale e la legge. Secondo Schmitt, il nomos della comunità [in greco la “legge”] o il senso di sé che si sviluppa dalla sua geografia, è il prerequisito filosofico per il suo ordinamento. Per i liberali, invece, la nazione è definita prima di tutto dai suoi obblighi legali”.

Netanyahu e tutti quelli del suo stampo aderiscono a questa visione schmittiana della politica, che subordina gli obblighi legali alla geografia e alla razza. La terra e la razza sono i motivi tanto dichiarati quanto oscuri e celati della politica di Netanyahu. Lui e la sua coalizione, per esempio, hanno portato avanti con determinazioneuna politica di lenta annessione nella West Bank, o nella speranza di espellere o di sottomettere i 2,5 milioni di palestinesi che ci vivono, o in quella di controllarli.

Netanyahu e i suoi hanno anche radicalizzato l’ebraicità del Paese, con l’assai controversa legge dello Stato-nazione. Flirtare con i leader antisemiti potrebbe sembrare contraddittorio rispetto alla legge sullo Stato-nazione, ma è motivato dalla stessa logica statalista e schmittiana secondo cui lo stato non vede più se stesso come un’entità obbligata a rappresentare tutti i suoi cittadini, ma piuttosto come intenta a espandere il suo territorio, aumentare il suo potere designando nemici; definire chi appartiene e chi no, restringere la definizione di cittadinanza, rafforzare i confini del collettivo statale, e minare alla base l’ordine internazionale liberale. La linea che connette Orbán alla legge sulla nazionalità è questa semplice e brutale espansione del potere statale.

Corteggiare Orbán o Morawiecki significa avere alleati nel Consiglio e nella Commissione Europea, il che aiuterebbe Israele a bloccare voti sgraditi, a indebolire le strategie internazionali dei palestinesi e a creare un blocco politico capace di imporre un nuovo ordine internazionale. Netanyahu e i suoi sodali hanno una strategia e stanno cercando di cambiare la forma dell’ordine internazionale per raggiungere i propri obiettivi interni. Contano sulla definitiva vittoria delle forze reazionarie per avere le mani libere per poter fare ciò che vogliono dentro lo stato.

Ma ciò che risulta più sbalorditivo è il fatto che, pur di promuovere le sue politiche illiberali, Netanyanu è disposto a snobbare e non riconoscere la stragrande maggioranza del popolo ebraico, i suoi rabbini e intellettuali più stimati, e l’ampio numero di ebrei che hanno sostenuto, finanziariamente o politicamente, lo Stato di Israele. Questo indica uno spostamento chiaro e innegabile da una politica basata sul popolo a una incentrata sulla terra.

Per la maggior parte degli ebrei che vivono fuori da Israele, i diritti umani e la lotta contro l’antisemitismo sono valori centrali. Il sostegno entusiastico di Netanyahu ai leader autoritari e antisemiti è espressione di un profondo cambiamento nell’identità dello stato quale rappresentante del polo ebraico, in una figura di stato che mira a proseguire la sua espansione conquistando terre, escludendo e discriminando. Questo non è fascismo di per sé, ma certamente ne costituisce una delle caratteristiche più distintive.

Questo stato di cose è preoccupante ma è forse anche foriero di due possibili sviluppi interessanti e perfino positivi. Il primo è che, nello stesso modo in cui Israele si è liberato del suo “complesso ebraico” – abbandonando il suo ruolo di guida e centro del popolo ebraico nel suo insieme – molti ebrei o forse la maggioranza di essi ora si libererà del proprio “complesso di Israele”, comprendendo infine che i valori di Israele e i loro sono profondamente in contraddizione tra loro. Il discorso del 13 agosto 2018 del capo del World Jewish Congress Ron Lauder, in quel momento in visita a Israele, è una potente testimonianza di questo. Lauder è stato molto chiaro. La perdita di status morale di Israele significa che non sarà in grado di richiedere la lealtà incondizionata degli ebrei del mondo. Ciò che in passato è stato vissuto da molti ebrei come un conflitto interiore, ora è lentamente in via di risoluzione. Molti se non la maggioranza degli appartenenti alle comunità ebraiche daranno preferenza ai loro obblighi nei confronti delle Costituzioni dei loro Paesi – vale a dire ai diritti umani universalisti.

Israele ha già finito di essere il centro di gravità del mondo ebraico e, in quanto tale, potrà contare solo sul supporto di un gruppetto di miliardari e sugli ultraortodossi. Ciò significa che per il prevedibile futuro le leve di cui dispone Israele per contare nella politica americana saranno significativamente ridotte.

Il trumpismo è una fase transitoria della politica americana. I latinos e i democratici di sinistra saranno sempre più coinvolti nella politica del Paese, e a mano a mano che entrano in gioco, questi politici troveranno sempre più difficile continuare a difendere le politiche israeliane più contrarie alle democrazie liberali. Diversamente che in passato, tuttavia, gli ebrei non faranno più pressione su di loro per farli guardare da un’altra parte.

Il secondo sviluppo interessante riguarda l’Europa. L’Unione Europea non sa più quale fosse la sua missione, ma i Netanyahu, i Trump, gli Orbán e i Morawiecki aiuteranno l’Europa a reinventare la propria vocazione. Al blocco socialdemocratico dell’UE sarà affidata la missione di opporsi all’antisemitismo e alle altre forme di razzismo supportate dallo stato, e soprattutto di difendere i valori liberali dell’Europa per i quali noi, ebrei e non ebrei, sionisti e antisionisti, abbiamo lottato così tanto. E Israele, ohibo, non è più parte di coloro che combattono questa lotta.

Traduzione dall'inglese di Carolina Figini

21 settembre 2018

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