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"Vogliono porre fine all'esistenza dei Rohingya"

nuovi problemi per il "popolo senza Stato"

Quando nel 2012 il Presidente degli Stati Uniti Barack Obama si recò per la prima volta in Birmania, i leader politici del Paese erano alle prese con scontri etnici e trattative interne per una transizione democratica che coinvolgesse anche Aung San Suu Kyi. A distanza di due anni, Obama si prepara a tornare in Myanmar, dove troverà gli stessi problemi, ancora irrisolti.

A preoccupare maggiormente è la situazione dei Rohingya, il “popolo senza Stato” che dal giugno 2012 è oggetto di una terribile ondata di violenza. Questa popolazione, concentrata soprattutto nello stato del Rakhine, al confine con il Bangladesh, è di religione musulmana, ed è al centro di quella che molti definiscono un’operazione di pulizia etnica. Secondo il Bollettino ufficiale delle Nazioni Unite, fino ad ora sono 250mila i Rohingya costretti ad abbandonare le loro case, e circa 150mila di loro si trovano nei campi profughi e necessitano di assistenza umanitaria.

Un “popolo senza Stato”, quello dei Rohingya, poiché la legge sulla cittadinanza del 1982 non li include tra i gruppi etnici ufficialmente riconosciuti nel Paese, considerandoli immigrati illegali dal vicino Bangladesh. Di contro lo stesso Bangladesh, dove molti Rohingya si sono rifugiati, non riconosce loro la cittadinanza, e anzi ormai non è più in grado di accoglierli.

Oggi il governo birmano sta attuando un piano di registrazione di questo popolo come cittadini ufficiali. Tuttavia, affinché le loro domande vengano accettate, le persone devono dichiarare di appartenere all’etnia Bengali, rinunciando di fatto alla propria identità di Rohingya. Secondo il progetto del governo, chi rifiuta questa clausola viene portato in un altro Paese, oppure resta nei campi profughi. Per essere considerati cittadini di seconda classe, inoltre, i Rohingya devono provare che la propria famiglia risiede nel Paese da più di 60 anni.

“Quello che sta accadendo - ha dichiarato Kyaw Min, leader dei Rohingya - non è casuale, ma è un piano deliberato e intenzionale di porre fine all’esistenza della nostra popolazione”. Anche gli osservatori stranieri si dicono preoccupati da questo provvedimento. “È sicuramente positivo - ha ribadito Tom Malinowski, assistente segretario di Stato per la democrazia americano - che il governo birmano voglia legalizzare la maggior parte della popolazione Rohingya possibile, ma il modo che è stato scelto per farlo può potenzialmente creare problemi ancora più grandi, dal momento che molti ritengono offensiva la qualifica di Bengali, e altri ancora si rifiuteranno sicuramente di rinunciare all’identità Rohingya”.

Le condizioni di vita nei campi profughi tuttavia sono disumane. I Rohingya sono senza assistenza sanitaria - viene mandato loro un medico più volte a settimana, ma i campi sono sprovvisti di servizi di emergenza - educazione e lavoro. Per questo alcuni Rohingya hanno accettato le condizioni del governo: a 40 è stata confermata la cittadinanza, mentre 169 sono stati naturalizzati cittadini birmani. Tuttavia c’è anche chi, come Nu Har Bi, ha ricevuto il nuovo passaporto - dichiarandosi Bengali - ma non può lasciare il campo profughi. Il destino degli altri Rohingya è ancora sconosciuto. 


Tutto questo accade pochi giorni dopo lo storico incontro tra i militari e Aung San Suu Kyi, riuniti per discutere la modifica di alcune norme costituzionali in vista delle elezioni del novembre 2015 - tra cui anche quella che impedisce alla leader dell’opposizione di candidarsi come Presidente, poiché imparentata con cittadini stranieri (nella fattispecie, i figli, con cittadinanza britannica).

12 novembre 2014

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