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Contro l'IS l'Europa sbaglia gli alleati

Intervista ad Alberto Negri

Dopo l'accordo sul nucleare l’Iran non ha cambiato cambiato linea, continuando a dare la priorità alla sicurezza e autodifesa dei confini e accentuando il conflitto con il mondo sunnita guidato dall'Arabia Saudita. Lo dice Alberto Negri, giornalista e inviato de Il Sole 24 Ore, che da 30 anni si occupa di Medio Oriente e nel 2009 ha pubblicato il libro “Il turbante e la corona”, storia della Repubblica Islamica dell’Iran, visitata per la prima volta nel 1980. Nell'intervista a Gariwo, Negri dice che la guerra al Califfato è fatta da Usa e Europa con gli alleati sbagliati e che l'accordo tra Unione europea e Turchia, per bloccare l'immigrazione irregolare imponendo il rimpatrio in Turchia dei migranti che non fanno domanda d'asilo o la cui domanda sia ritenuta infondata o non ammissibile, avvantaggia il presidente turco Erdogan.

Ci sono stati cambiamenti nella politica estera iraniana dopo l’accordo per il nucleare?

L’Iran non ha cambiato nella sostanza la propria diplomazia, che ha la sicurezza e autodifesa dei propri confini come obiettivo principale, per il quale è disposto a fare la guerra in Iraq e in Siria per tenere lontano il mondo arabo. Poi c’è il conflitto con Israele e quello con gli Stati Uniti, riguardo ai quali quasi nulla è cambiato perché gli americani continuano ad applicare sanzioni finanziarie contro Teheran e le posizioni dei contendenti sono immutate. Si è aggiunto un conflitto più profondo nel mondo sunnita con l’Arabia Saudita, vero grande rivale regionale. Su queste problematiche l’Iran ha un duplice approccio: quello del governo di Hassan Rohani, pragmatico-moderato, non riformista, che considera i negoziati e le trattative uno strumento per difendere meglio gli interessi nazionali, e quello della Guida Suprema Ali Khamenei e del fronte più conservatore, che ritiene comunque il ricorso agli armamenti un modo per difendere meglio che con i negoziati la sicurezza del paese. Posizioni molto differenti, ma che si integrano nella politica della Repubblica Islamica.

In occasione della recente missione ufficiale del governo italiano a Teheran hai scritto che l’Iran è una buona carta per l’Italia, ma non può essere l’unica. Come conciliare il riavvicinamento all’Iran con i rapporti con le altre potenze regionali?

La politica estera italiana è sempre stata non di esclusione ma di inclusione delle varie parti nel dialogo. Questo risale ai tempi della Prima Repubblica, con Moro, Andreotti, Craxi. I rapporti con l’Iran sono sempre stati buoni, sia al tempo dello Scià, che con la Repubblica Islamica, gli italiani sono sempre stati i primi a tornare dopo le rotture dei rapporti della comunità internazionale con l’Iran. Gli obiettivi geopolitici sono evidenti: l’Iran è un attore strategico nel Golfo, in Iraq e in Siria, per la stabilizzazione o la destabilizzazione regionale, perché tutti gli attori lavorano sia per l’una che per l’altra. Quindi la politica dell’Italia è il bilanciamento tra il fronte sunnita e il fronte sciita, sapendo però che l’Iran è una potenza con caratteristiche geopolitiche fondamentali: ha 80 milioni di abitanti, è molto omogeneo dal punto di vista religioso ed etnico e può avere rapporti molto importanti sia con l’area araba e turca, che con quella centro-asiatica.

La situazione in Siria sembra in stallo, i negoziati di pace non procedono e la tregua tra le parti non tiene. L’Europa dichiara di voler combattere il Califfato, ma ha scelto gli alleati giusti per riuscire nell'impresa?

Noi ci troviamo a districare i nodi creati dagli Stati Uniti e da una parte degli europei per dieci anni. Gli Stati Uniti hanno sempre sostenuto i sauditi, tranne quando hanno abbattuto Saddam Hussein provocando la reazione dei loro alleati sunniti, in particolare l’Arabia Saudita che in tutti questi anni ha cercato una rivincita in particolare in Siria, tentando di abbattere Bashar al-Assad, alleato di Teheran. Ora di fronte a questo gioco geopolitico si sono inseriti anche dei dati economici importanti, come il calo prezzo del petrolio con gli stessi conflitti tra Teheran e Riad. In questa ottica la guerra al Califfato da parte degli Stati Uniti e dell'Europa, è stata fatta con gli alleati sbagliati, Turchia e Arabia Saudita, che hanno sempre sostenuto i gruppi jihadisti. Da questa contraddizione Washington e gli stati europei non sono ancora usciti e non vogliono uscire perché ci sono interessi economici molto forti che legano USA e Europa alle monarchie del Golfo. Quindi riequilibrare la politica nella regione vuol dire proprio riallacciare certi rapporti con Teheran dal punto di vista politico ed economico.

Alcuni analisti dicono che affrontare un'entità organizzata come lo Stato Islamico solo con mezzi militari finisce con incoraggiare la dedizione dei suoi seguaci al sacrificio ed è quindi controproducente. Quindi bisogna contrastarlo anche sul piano politico e culturale. Concordi?

Lo Stato Islamico deriva da una branca di Al Qaeda, che ha iniziato la guerra contro l’occupazione americana in Iraq e poi è riuscita a estenderla in Siria e ad aggregare jihadisti dal mondo musulmano ma anche dall’Europa, come ai tempi della guerra in Afghanistan. Dire che serve la cultura non significa assolutamente niente, non ha nessuna rilevanza. Mentre è rilevante spiegare perché paesi come la Siria e l’Iraq sono stati ridotti nelle condizioni attuali, perché dopo 13 anni lo Stato iracheno non è stato ricostruito e quello siriano si è disintegrato, e indicare che cosa servirà per ricostruirli. Il problema non è lo Stato Islamico, sono milioni e milioni di persone in difficoltà.
E l’organizzazione dello Stato Islamico non mitizziamola troppo, prima di tutto perché sta perdendo terreno con Bashar al-Assad e i russi, che hanno riconquistato Palmira e stanno riprendendo il controllo di Aleppo. Il problema sarà vedere quando cadrà lo Stato Islamico e in che modo e cosa resterà di esso in Siria, in Iraq e nel resto del Medio Oriente. Ricordatevi la storia dei combattenti afghani che tornarono nei territori di origine.

I dati dell’UNHCR sugli arrivi di migranti in Grecia nella prima metà di aprile mostrano un calo del flusso rispetto ai tre mesi precedenti. Significa che l’accordo tra Unione europea e Turchia per il contenimento e rimpatrio dei migranti funziona?

Ho sempre sostenuto che forse sarebbe stato meglio contrattare direttamente con il regime di Bashar al-Assad il ritorno dei profughi siriani in patria, perché nonostante le città siano distrutte è molto meglio far ritornate i siriani a casa loro, piuttosto che rimbalzarli tra l’Egeo e l’Anatolia. Forse era meglio investire in questo, che è anche un modo per sostenere la ricostruzione materiale e anche morale della popolazione. I primi dati di aprile dicono che l’accordo funziona? Ma è chiaro che Erdogan, con tutti i soldi e i vantaggi che ne deriveranno per la Turchia, deve far vedere nei primi mesi che l'accordo funziona. Verificheremo nel medio periodo se sarà davvero così. A molti migranti non è stata presentata la possibilità della domanda di asilo e vengono rispediti direttamente e molti non vogliono neanche tornare in Turchia, perché non ritengono che sia un paese sicuro per loro.

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