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Cosa farei di fronte a un jihadista? Racconterei il mio dolore

di Maryan Ismail

L'amico Gabriele Nissim, in occasione della ristampa del libro di Yasmina Khadra, L'attentato (ed. Sellerio), mi ha chiesto cosa potrei fare per dissuadere un giovane attirato dalla narrazione del jihadismo islamista.
Cosa potrei fare anche...per la mia tragica esperienza familiare.

Per dare una risposta strutturata mi sono documentata girando e ho preso atto che in Italia un percorso di de-radicalizzazione non è ancora stato codificato né tanto meno sperimentato. 
Vi sono esperienze americane come quella con la comunità somala del Minnesota, qualcosa in Canada con le comunità arabe e afgane, un recente percorso è iniziato in Austria - dopo la fuga (e la morte) di due sedicenni di origine slava -, in Inghilterra, Danimarca, Svezia...
Sono stati costituiti team specializzati con psicologi, assistenti sociali, giuristi, imam, esperti di varia natura, per cercare di lavorare sul plagio che i giovani e giovanissimi subiscono con una velocità impressionante.

Durante questa ricerca, mi sono accorta che con tali letture stavo toccando un punto molto profondo e delicato. Mi sono chiesta cosa avrei potuto fare io, Maryan, di fronte a una persona radicalizzata.
La cosa più semplice, immediata e forse utile, sarebbe raccontarsi.

Cosa e chi ci tolgono con la loro infamante follia omicida giustificata, nel nome di un Dio inventato per conquistare potere, controllo e denaro.
Sì, credo che ascoltare il dolore dei parenti, degli amici e degli affetti di chi è rimasto vittima sia il miglior antidoto contro la scelta, altrettanto orribile, che fanno loro stessi. In questo anno e mezzo ho affrontato la morte di mio fratello* con forza e energia, perché mi sono sentita da subito investita dal compito di non vanificare il suo sacrificio, affinché attraverso tale sacrificio la voce delle tantissime vittime sconosciute riacquistassero la dignità umana che spetta loro.

Se dovessi trovarmi di fronte a qualcuno che crede di immolarsi per la religione, ebbene, metterei a nudo il mio dolore.
Quel dolore che non ho mai “volutamente” raccontato, per pudore o perché troppo dilaniante.
Direi che mi ha tolto il senso del mio mondo d'affetto, la mia patria, la mia infanzia, la mia sicurezza, con la certezza che non potrò mai più parlargli.
Mi è negata la possibilità di ascoltare i suoi progetti, le sue preoccupazioni, i sogni per sé e per i suoi figli, la sua felicità e orgoglio di diventare nonno per la prima volta, la dolcezza di un fratello maggiore, affettuoso e giocoso con i miei figli, il fratello con cui litigavo per motivi politici o per opinioni differenti. Io passionale, lui sempre diplomatico. 
Racconterei che qualcuno, giovane come lui, ha spento un uomo, una biblioteca d'esperienza, un uomo fantastico e solare, colui con cui andavo a ballare da giovane: eh sì, ballava la salsa in modo divino, nonostante la ciccia dovuta ai “pranzi diplomatici”.

A volte il dolore riguarda ciò che avevamo e che abbiamo perso, altre volte ciò che mai avremo.
Quello che fa più male è la perdita delle “possibilità.
Per me non sarà più possibile, ad esempio, lavorare insieme a Yusuf per ricostruire il nostro Paese, per dare una prospettiva di un futuro diverso a tanti giovani sfortunati, o condividere la felicità per un progetto portato a termine.
Quando perdiamo qualcuno, non perdiamo solo la persona, ma anche il ruolo che quella persona aveva nella nostra e altrui vita. È una perdita che si ripete nel tempo, perché ci rendiamo conto che non avere più la sua condivisione per un determinato fatto (una nuova nascita, un matrimonio, un parente malato, un fatto politico), ci fa “morire” quella persona un'altra volta.

Sono sicura che il sentimento che provo, unito al dolore che certamente la madre di un jihadista prova per la scelta sbagliata di suo figlio, può essere un valido e potente motivo di ripensamento.
Sono certa che anche nel cuore della madre del terrorista, regna il dolore di una perdita cosi assurda, nonostante la narrazione della “guerra giusta” che viene propagandata. Perché ne sono sicura? Perché è anche lei madre, colei che più intimamente è legata al proprio figlio/a e che mille volte al giorno si chiederà con angoscia il senso di una perdita così lacerante. È lo stesso dolore che prova la madre della vittima della follia religiosa.

Può un Dio volere questo? No, non può e non vuole.
Sono gli uomini a volerlo, uomini che si nutrono del sangue altrui per il puro desiderio di potere. Il sangue versato non costruisce alcuna purificazione.
È un sangue, quello del jihadista, che non porta in alcun Paradiso, ma solo nell'Inferno della disperazione perpetua, alla dannazione della contemplazione infinita del cumulo di macerie sotto il quale è costretta a giacere l'umanità.

Ne vale la pena?

*Yusuf Mohamed Ismail era l'ambasciatore del governo somalo a Ginevra, presso l'Onu e la Confederazione Elvetica. È stato assassinato il 27 marzo 2015 dai terroristi di Al-Shabaab, durante l'assalto all'hotel Al Mukarama di Mogadiscio. (ndr)

Maryan Ismail, docente di antropologia dell' immigrazione

Analisi di

5 ottobre 2016

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