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I terroristi non rappresentano l'Islam

Intervista a Paolo Branca

Gli attentati del 26 giugno in Tunisia, Kuwait, Somalia, Francia hanno causato 117 morti e centinaia di feriti durante il Ramadan, un mese che dovrebbe essere dedicato alla preghiera e alla meditazione ed invece è stato segnato dalla violenza in Medio Oriente e Nord Africa. Si è riacceso l’allarme per possibili nuovi attacchi e cresce la paura dell’Islam come minaccia per la sicurezza. Ma un timore così generalizzato non è motivato, secondo Paolo Branca, professore di Lingua e Letteratura araba all'Università Cattolica di Milano ed esperto di Islam, intervistato da Gariwo.

Che legame c’è tra Islam e ISIS e perché la componente musulmana non fondamentalista non ha finora contrastato con forza gli estremisti?

Vorrei ricordare che i musulmani sono attualmente più di un miliardo e mezzo e che il paese islamico più popoloso al mondo è l’Indonesia. Il primo stato arabo nella classifica demografica è solo al quinto posto ed è l’Egitto. Riverberare sull’intero Islam la pur drammatica situazione di alcune aree del Nordafrica e del Medio Oriente è sbagliato e persino controproducente. Ciò detto non è meno vero che in nazioni come l’Iraq e la Siria si è prodotto uno spaventoso vuoto di potere e un caos tale da minacciare seriamente non solo la stabilità della zona, ma anche la sicurezza dei paesi confinanti. Una mancata distinzione tra religione e politica negli stati nazionali moderni sorti dopo la decolonizzazione rende assai problematico, ai danni degli stessi musulmani in primis, un believing che non coincida con un belonging.

Alcuni osservatori sottolineano le responsabilità degli stati arabi nell’aver tollerato o addirittura finanziato e sostenuto i gruppi estremisti. Perché lo hanno fatto? Cosa dovrebbero fare per arginarli?

I regimi dittatoriali che si sono succeduti per decenni hanno favorito la sopravvivenza di un’opposizione interna solo in chiave islamista, anche per ricattare l’Occidente e restare in carica nonostante la loro inefficienza e la loro corruzione. Dal punto di vista ideologico, poi, sono proprio i paesi petroliferi del Golfo che hanno promosso e sostenuto una visione più puritana e tradizionalista dell’Islam, e ciò rappresenta una grave corresponsabilità da parte dei loro alleati occidentali che non li hanno mai contrastati significativamente in questo.

In queste ore l’Occidente si interroga sulla propria incapacità di reagire agli attacchi. Secondo lei cosa dovrebbe fare?

Rendere la vita dei cittadini di questi paesi almeno decente è la premessa indispensabile per favorire lo sviluppo di una società civile e di forme di democrazia un po’ dovunque. Coi musulmani che sono ormai alla terza o quarta generazione in Europa, poi, occorrerebbe un grande sforzo formativo che consenta loro di sviluppare interpretazioni alternative delle proprie fonti, cosa praticamente impossibile nei loro paesi d’origine.

L’attentato in Kuwait aveva come obiettivo una moschea sciita. Condivide l’opinione di alcuni osservatori che vedono il conflitto soprattutto come interno all’Islam, per il predominio nella regione, e non come un tentativo di guerra globale?

Non credo certo che gli attentatori dell’11 settembre intendessero occupare gli Usa… il palcoscenico internazionale serve ad attirare l’attenzione, ma la vera posta in gioco è l’egemonia interna all’area islamica.

In diversi paesi europei la segregazione degli immigrati in ghetti periferici ha favorito l’adesione, di chi si sentiva escluso dal sistema, alla propaganda estremista. E’ possibile una maggiore integrazione degli immigrati e con quali modalità?
Dovremmo fare di tutto affinché essere musulmano in Europa possa diventare una cosa ‘normale’, come appartenere a qualsiasi altra religione. Trattare i seguaci dell’Islam come dei ‘casi speciali’ indurrà sempre una parte di essi a considerarsi ospiti non graditi, con conseguenze che purtroppo saranno anche gli altri (la maggioranza) a pagare, insieme a noi.

Viviana Vestrucci, giornalista

30 giugno 2015

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