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Iraq, le responsabilità dell'Occidente

Intervista ad Alberto Negri

A undici anni dall’invasione americana l’Iraq è sconvolto dall’offensiva dell’ISIL (Stato Islamico dell’Iraq e del Levante), il movimento estremista sunnita di emanazione qaedista, che ha occupato le province nord occidentali conquistando Mosul, la seconda città del Paese, abbandonata dall’esercito nazionale. Il conflitto potrebbe degenerare in una guerra civile tra la componente sciita, guidata dal premier Nouri al-Maliki, andata al governo dopo la fine della guerra con gli Stati Uniti, e quella sunnita, minoritaria, che dopo la caduta di Saddam Hussein è stata progressivamente esclusa dai vertici delle forze armate e dai posti di comando nella società civile. Un’emarginazione che ha alimentato l’ostilità dei sunniti verso gli sciiti e il governo di al-Maliki e potrebbe spingerli ad appoggiare l’ISIL (chiamato anche ISIS, Stato Islamico dell’Iraq e della Grande Siria, dal termine arabo al-Sham, Levante).

Per capire quale scenario si prospetta
Gariwo ha intervistato Alberto Negri, giornalista e inviato de Il Sole 24 Ore, che da 30 anni si occupa di Medio Oriente e nel 2009 ha pubblicato il libro “Il turbante e la corona”, storia della Repubblica Islamica dell’Iran, visitata per la prima volta nel 1980. Negri, tornato giorni fa dalla Siria, sconvolta dalla guerra civile, analizza i drammatici sviluppi dopo l’avanzata dell’ISIL, che rientra nella strategia di conquista annunciata nell’aprile 2013 e accelerata negli ultimi mesi.

"Lo scontro tra sunniti e sciiti in Iraq risale già agli inizi degli anni ’70, con gli sciiti che facevano riferimento ai loro imam e ayatollah in contrapposizione ai governi laici guidati dal Partito Baath, e si è accentuato nel 1978-1979, con la caduta dello scià in Iran e l’avvento al potere di Khomeini e soprattutto con la guerra tra Iraq e Iran. Il rafforzamento della componente sciita in Iraq, in origine dominato dalla dinastia sunnita Abbaside, risale alla metà circa dell’800, quando le città di Najaf e Karbala, grazie a ingenti finanziamenti dagli sciiti indiani, deviarono le acque del Tigri e dell’Eufrate, fecero grandi progetti idrici e occuparono molte terre, dove si trasferì buona parte della popolazione sunnita, che a contatto con gli sciiti si convertì allo sciismo. Un fattore economico, più che religioso, ha cambiato quindi il rapporto demografico tra sunniti e sciiti”.

Dopo la caduta di Saddam, con l’ascesa di al-Maliki i sunniti si sono sentiti progressivamente tagliati fuori dalla distribuzione delle ricchezze petrolifere e dalle stanze del potere e quindi traditi dal governo sciita, che si era invece impegnato ad integrarli. Su questo si è innestato l’attacco dal parte dell’ISIL, finanziato dalle famiglie saudite e qatarine del Golfo che da sempre fomentano i gruppi jihadisti. Come valuti questa situazione?

“Il quadro è grave e dovrebbe indurre noi occidentali a chiederci con chi stiamo: pur di avere soldi dalla monarchia saudita e dal Qatar abbiamo lasciato che queste sostenessero i movimenti più estremisti e radicali, che in Siria, con il Fronte al-Nusra e con l’ISIL, hanno sferrato le offensive più importanti contro Bashar al-Assad, mettendo a ferro e fuoco il Paese e distruggendo città e villaggi cristiani, come ho testimoniato sul mio giornale con articoli e dozzine di foto. Il disastro in Iraq è incombente e purtroppo la comprensione del problema da parte dell’opinione pubblica occidentale è resa difficile dalla grande incompetenza di molti, che sui media scrivono di questi posti, senza esserci mai andati e senza conoscerli”.

Da chi è stato costituito l’ISIL e che ideologia vuole diffondere?

"L’ideologia e gli obiettivi dell’ISIL sono noti da tempo: il movimento ha avuto origine in Iraq, intorno alle città di Baghdad, Falluja e Rahmadi, città sunnite protagoniste della rivolta contro l’occupazione americana nel 2003, dove al-Qaeda agiva sotto il comando di Abu Musab al-Zarqawi. Il capo dell’ISIL, Abu Bakr al-Baghdadi, proviene dalle file di al-Zarqawi, ed era noto come l'Emiro di Rawa che si occupava dell’applicazione della legge islamica, imposta attraverso gli appositi tribunali. Poi l’organizzazione si è estesa in Siria, dove ha conquistato città importanti come Raqqa e Deir ez-Zor e anche la periferia di Damasco, Duma, dove sventola la bandiera nera dell’ISIL”.

Le responsabilità dell’aggravarsi della crisi possono essere ricondotte agli Stati Uniti, oltre che alla gestione settaria del potere da parte della leadership sciita?

“Le contraddizioni della politica estera americana sono evidenti: se bombardano in Iraq, gli Stati Uniti rischiano di colpire zone urbane, dove la guerriglia tiene la popolazione in ostaggio e quindi rischiano di fare vittime civili come in Afghanistan e in Pakistan. Per questo Obama oggi esita. L’anno scorso in Siria non ha bombardato perché il Pentagono aveva detto che un eventuale attacco avrebbe fatto vincere gli estremisti di Jabat al-Nusra e dell’ISIL, visto che il cosiddetto Esercito Siriano Libero e i gruppi moderati non hanno alcun peso. In Iraq gli americani sperano che gli iraniani aiutino al-Maliki a tenere lontani gli estremisti dalla capitale. Ma il problema non è risolvibile solo militarmente, perché è anche politico e il nodo principale è che bisogna rimuovere al-Maliki e fare un governo di coalizione con i sunniti”.

E i curdi?

"Intanto i curdi del Kurdistan iracheno hanno approfittato dell’ISIL per mettere le mani su Kirkuk, una città contesa su cui avrebbe dovuto esserci un referendum, mai fatto, per stabilire a chi appartiene. Kirkuk, che i curdi continuano a definire la Gerusalemme curda, in realtà è abitata da una maggioranza sunnita e turcomanna. I curdi ora hanno la possibilità di ricattare il governo centrale su due punti, combattere l’ISIL e potere esportare il petrolio, senza chiedere il permesso a Baghdad, che non l’ha mai dato. Ma loro hanno cominciato a esportare il petrolio in Turchia, a venderlo agli Stati Uniti e persino a Israele. Insomma il Paese non tornerà mai più quello che era prima della guerra, e lo stesso sarà probabilmente in Siria e dovremo parlare di ex Iraq ed ex Siria, e quindi ex Medio Oriente”.

Come è il destino delle minoranze cristiane in Iraq e Siria?


"In questo scenario di guerra il loro destino è molto incerto. In Iraq i cristiani, già dalla caduta di Saddam, temevano per la loro sorte e i numeri confermano le paure: da 1,5-2 milioni i cristiani sono scesi a 300-400 mila. Quando le milizie dell’ISIL sono entrate a Mosul, la prima cosa che hanno fatto è stata saccheggiare la banca centrale e le chiese assire del III, IV e V secolo. I cristiani in Medio Oriente sono schierati con Assad e con Hezbollah, che combatte i sunniti radicali, e si chiedono se l’Occidente sta con loro o con i loro nemici. Quanto alla Siria, dove le minoranze cristiane sono importanti e numerose, a Damasco nel quartiere centrale di Bab Tuma, i cristiani si sono armati e alle ultime elezioni hanno votato in massa per Assad, la cui foto è affiancata a quella di Nasrallah, il leader degli Hezbollah, che ha riconquistato Maloula e gli altri villaggi cristiani messi a ferro e fuoco da al-Nusra e dagli jihadisti, come il quartiere cristiano di Hamadya a Homs. I cristiani in Siria sono schierati, come un solo uomo, con Assad, l’unico che dà loro delle garanzie di sopravvivenza fisica. Si può dire che Assad si è servito dei cristiani per manovrare e mantenere il potere e ha commesso errori nella risposta alla rivolta di Darrah, ma la Siria era il paese più normale del mondo arabo e hanno deciso di destabilizzarlo e renderlo un inferno. Le foto di Maloula, il piccolo villaggio di montagna con due antichi monasteri patrimonio dell’umanità, ridotto in macerie dai miliziani di al-Nusra, mostrano le conseguenze della politica americana”.

Quali le possibili vie d’uscita da questa drammatica situazione?

“In realtà penso che per avere un Medio Oriente migliore serva più democrazia, non soluzioni basate sulla violenza e sull’autoritarismo, serve una maggiore rappresentanza di tutte le componenti etniche e settarie. È indispensabile in Iraq, Siria, Libia, Egitto, un ritorno alla politica, a partiti non settari e tribali, ma rappresentativi delle istanze sociali ed economiche. Tony Judd, eminente storico anglosassone, prima di lasciarci ammoniva: “Credo che nei decenni a venire guarderemo alla mezza generazione tra la caduta del comunismo nel 1989-91 e la catastrofica occupazione americana dell’Iraq come negli anni che la locusta ha mangiato: un decennio e mezzo di opportunità sprecate e di incompetenza politica”. Parole mi sembra davvero profetiche”, conclude Negri con amarezza.

Viviana Vestrucci, giornalista

23 giugno 2014

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