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​“L’Islam radicale e la difficoltà di un aggiornamento dell’Islam”

intervista a Khaled Fouad Allam

Sul problema dell’ISIS e del jihadismo europeo abbiamo intervistato Khaled Fouad Allam, autore di numerosi libri sui problemi dell’integrazione dei musulmani, di cui il più recente è Il jihadista della porta accanto. Il problema, per lo studioso che è stato anche Deputato al Parlamento Italiano, è costruire società capaci di integrare gli stranieri e anche di accogliere coloro che sono capaci di opporre resistenza morale al fondamentalismo. Per esempio, persone come Hawa Dibi Dhiblawe, medico e avvocato che ha continuato a operare migliaia di persone ferite dai fondamentalisti somali.

Chi è “il jihadista della porta accanto”? Come mai tanti giovani partono dall’Europa per arruolarsi nell’ISIS?

Può essere qualunque ragazzo che a un certo momento incontra l’ideologia dell’islam radicale, nella vita normale o a volte in carcere, e decide di lasciare tutto, la professione, il lavoro, e andare a combattere per l’ISIS. Ne ho parlato nel mio libro ripercorrendo ad esempio la storia di Khaled Kelkal, il jihadista degli attacchi di Parigi del 1995, una delle prime esplosioni di furia jihadista in Europa, che fece 5 morti e oltre 100 feriti nella metropolitana della capitale francese. Questa persona non riuscì a integrarsi – il che non dipendeva tanto da difficoltà lavorative, ma più sociali (per esempio al sociologo tedesco che lo andò a intervistare in carcere per comprendere la sua vicenda disse: “Se entra un gruppo numeroso di francesi in un bar, va tutto bene, ma se entra un gruppo numeroso di noi i francesi impazziscono”). A un certo punto la sua integrazione fallì e lui iniziò una caduta nella criminalità comune che, in carcere, lo portò a contatto con i predicatori radicali. Per cosi dire Kelkal si è“re-islamizzato”. È così che molti giovani musulmani di seconda generazione diventano jihadisti, ed è per questo che bisogna lavorare sull’integrazione.

Lei scrive che il potere dell’ISIS è un “totalitarismo di terza generazione”. Vuole spiegarci questa definizione?

È l’espressione politica di una visione religiosa, diversa se vogliamo dal nazismo e dal fascismo anche se ha in comune una divisione del mondo in bene e male, dove il califfato rappresenterebbe l’unico bene possibile e tutto ciò che è diverso è da eliminare. Il califfato nasce su una frattura, esistente dalla prima guerra mondiale in poi, tra una parte del mondo arabo che vede nella modernità una fonte di emancipazione e progresso e una parte che considera raggiungibile questa modernità soltanto attraverso il ritorno a un islam delle origini. Con un califfato, si badi bene, arabo. L’ISIS non vuole un califfato genericamente “musulmano” come poteva essere l’Impero Ottomano dove predominava l’elemento turco. In questa lotta per fare affermare il califfato si mira ad abbattere gli stati nazione arabi e musulmani che erano sorti dal contatto tra il mondo musulmano e l’occidente, come via alla modernità.

Perché il wahabismo saudita è una minaccia per il mondo?

Il wahabismo è una corrente molto puritana dell’islam, che non accetta riforme. Tutte le altre forme di islam hanno un metodo di riforma interno chiamato ijtihad. mentre il wahabismo pretende di rifarsi direttamente all’islam primigenio e non accetta il modificarsi delle interpretazioni del Corano, che invece furono utilizzate per esempio da Bourghiba in Tunisia per abolire per legge la poligamia.

Perché con le primavere arabe non si è realizzata una democrazia nei Paesi arabi?

Ci vorranno anni perché si realizzi. In realtà essa contrasta con la pressione dell’islam radicale, che vede un connubio tra la norma statale e la sharia. Questo rende estremamente complicato il passaggio alla democrazia effettiva. Perciò non possono che essere delle democrazie trompe-l’oeil.

Il rischio dell’accerchiamento degli sciiti, di cui fa parte anche l’Iran, comporta una difficoltà maggiore nel già difficile negoziato sul nucleare iraniano? Ci vuole spiegare questo concetto?

Un pericolo del genere esiste, ma bisogna ricordare anche che l’Iran è una potenza regionale ragguardevole. E che non è l’unico Paese islamico a detenere l’atomica. Per esempio il Pakistan potrebbe costruire l’atomica.

Lei dice che Lampedusa ci insegna che da noi arrivano non solo persone, ma anche memorie che andrebbero sapientemente ricostruite. Nel suo libro ha citato un’attivista somala come punto di riferimento per tutti. Ci vuole indicare qualche persona “giusta” del Medio Oriente?

Non mi viene in mente una figura particolare. Nel mio libro ho citato Hawa Dibi Dhiblawe, medico e avvocato che ha continuato a operare migliaia di feriti dai fondamentalisti somali. Lei potrebbe essere citata a esempio per tutti. Ma l’importante è anche che le società siano pronte ad accogliere queste figure.

Ci vuole spiegare perché, a conclusione del suo libro, lei ricerca ancora nel Corano una fonte di speranza?

Io ho citato due versetti in particolare: i versetti 48 e 32 della sura 5, La mensa: “Se Dio avesse voluto, certo avrebbe fatto di voi una sola comunità. Ma vuol provarvi con ciò che vi ha dato. Gareggiate quindi nelle buone opere. Tutti ritornerete a Dio che allora vi informerà su ciò su cui divergete”. E ancora: “Per questo prescrivemmo ai figli d’Israele che chiunque ucciderà una persona senza che questa ne abbia uccisa un’altra o portato la corruzione sulla terra, è come se avesse ucciso l’umanità intera. E chiunque avrà vivificato una persona, sarà come se avesse dato vita all’umanità intera”.

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