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​Mi dissero di venire sola

Souad Mekhennet, la giornalista che parla coi terroristi

Souad Mekhennet

Souad Mekhennet

Nel 2015 il Washington Post svela l’identità del noto giustiziere dell’ISIS Jihadi John. A renderlo possibile c’è Souad Mekhennet, - giornalista e autrice tedesca di origine turco-marocchina -, attualmente corrispondente della sicurezza nazionale per il quotidiano statunitense. Souad ha speso la sua carriera cercando di comprendere i jiahadisti, o meglio, i meccanismi che li spingono alla violenza. “Perché ci odiano?”: lo ha chiesto direttamente a loro.

I Was Told to Come Alone, pubblicato dalla Mekhennet nel 2017, raccoglie alcune delle sue affascinanti conversazioni con gli estremisti islamici, in un’indagine sulle origini della loro radicalizzazione.

In particolare, l’intervista fatta nel 2014 in Turchia ad Abu Yusaf - militante ISIS - viene descritta dall’autrice come una delle più interessanti, un dibattito forte con colui che avrebbe poi scoperto essere al controllo del programma di ostaggi in cui era coinvolto Jihadi John. È un’operazione rischiosa, un dialogo pericoloso, soprattutto a fronte del fatto che, un anno prima, la giornalista - con padre sunnita marocchino e madre sciita turca - era già stata minacciata di rapimento da due militanti, che volevano attirarla in Siria con l’inganno per poi costringerla a sposare un membro dello Stato Islamico. Souad non si ferma nemmeno sapendo che il gruppo di estremisti sta tenendo in ostaggio dei giornalisti, e nonostante la paura decide di portare a termine la sua intervista, spinta dalla consapevolezza che sarebbe stata la prima occidentale a parlare con un comandante ISIS e vivere per raccontarlo.

Già nel periodo post 11 settembre Souad aveva iniziato la sua attività d’indagine sulla Jihad globale, mostrando il suo interesse per il tema. Il suo background, ma soprattutto il suo essere una donna musulmana di origine marocchina-turca nata e cresciuta in Germania, le hanno facilitato di molto l’accesso agli ambienti dei leader militanti.

Torniamo a quella giornata di luglio 2014 ad Antakya: la Mekhennet viene avvisata che non può portare nessun altro collega del Post, non un documento d’identità o un cellulare, solo un taccuino e una penna. In cambio la giornalista chiede di poter parlare con un’autorità, qualcuno che le possa riferire la visione a lungo termine dello Stato Islamico. Soprattutto, Souad chiede di avere la garanzia di non essere in pericolo di rapimento e di non venire obbligata a mostrare i suoi scritti. Si reca quindi all’appuntamento vestita con un “black abaya”, l’abito tradizionale del Medio Oriente che copre l’intero corpo eccetto occhi, mani e piedi, scelto per lei anni prima da uno degli associati di Abu Musab al-Zarqawi, - affiliato ad Al-Qaeda - in occasione di una visita alla sua città natale Zarqa, in Giordania. Da allora Souad lo usa negli incontri più delicati. La riunione ha luogo in tarda serata, in privato, la giornalista è accompagnata dall’uomo che le ha permesso di organizzare l’intervista (che nel libro viene chiamato Akram). Prima di uscire dall'hotel per raggiungerlo in auto, Souad lascia al suo collega i numeri di telefono che avrebbe dovuto utilizzare per contattare la sua famiglia nel caso qualcosa fosse andato storto. Sul sedile posteriore dell’auto è seduto Abu Yusaf che, con un berretto da baseball bianco, occhiali colorati e una polo, si potrebbe tranquillamente confondere tra gli altri in qualsiasi strada europea, non fosse per la pistola che porta nella tasca destra del pantalone. Potrebbe avere circa trent’anni. Vicino a lui c’è un vecchio telefono perché, come spiega, per motivi di sicurezza nessuno nella sua posizione avrebbe usato un Iphone, più vulnerabile alla sorveglianza.

Souad, intanto, cerca di tenere traccia della strada, cosa non semplice vista l’oscurità della notte. Abu Yusaf ha un tono pacato e tranquillo, ma cerca di nascondere la sua origine marocchina. La donna però la intuisce perfettamente e, di conseguenza, decide di passare dall’arabo classico all’arabo marocchino, seguita a ruota da Abu. Il giovane estremista ha vissuto nei Paesi Bassi fin da adolescente, parla francese e olandese e ha studiato ingegneria.

Durante il viaggio spiega in breve a Souad la sua visione dell’ISIS: l’organizzazione libera i musulmani in modo che possano diffondere l’Islam in tutto il mondo. “Se gli Usa ci trattano con i guanti anche noi lo faremo, ma se ci colpiscono con il fuoco noi faremo lo stesso con qualsiasi altro paese occidentale. Abbiamo molte risorse e competenze - racconta Abu - abbiamo iniziato il nostro lavoro molto prima di apparire sul palcoscenico mondiale e i nostri membri sono persone istruite, provenienti dai Paesi europei, persone laureate e cresciute, tra gli altri, in Gran Bretagna (l’autrice capirà poi che in questo frangente Abu si stava riferendo ai cosiddetti “Beatles”: Jhiadi John e altri tre affiliati britannici). Credevate forse che si unissero a noi solo dei folli senza cultura?”.

Ma che cosa ti ha spinto ad aderire al gruppo?”, chiede quindi la Mekhennet.

“Sono stato ingannato dall’ipocrisia dei Governi occidentali” - risponde Abu - “Fingono di diffondere uguaglianza e diritti umani e poi relegano i musulmani ad una sorta di cittadinanza di seconda classe, li bloccano in uno stadio di inferiorità”. L’invasione statunitense dell’Iraq, aggiunge, “è stata ingiusta, non c’erano armi di distruzione di massa, gli iracheni sono stati torturati ad Abu Ghraib dagli americani senza che questi ultimi subissero alcuna conseguenza”.

Dici che sei contro l’uccisione di persone innocenti - ribatte Souad - Perché allora rapisci e uccidi?”.

Dopo un silenzio di alcuni secondi arriva la risposta: “Ogni Paese ha la possibilità di liberare la propria gente, se non lo fa è un problema suo. Noi non abbiamo attaccato, siamo stati attaccati”. Abu continua citando gli insegnamenti del nonno: “è stato lui a parlarmi della “jihad”, di come lui e i suoi “fratelli ebrei” avessero combattuto per espellere i francesi che avevano preso il controllo delle loro terre ancestrali. Quando combattevano per la libertà in Marocco non uccidevano nessuna donna e nessun bambino, non è permesso nella jihad”. Adesso - dice - “siamo costretti a combattere in modo diverso per liberare il mondo musulmano, perché ci hanno costretto gli americani con le loro azioni in Iraq”.

“Tu sei cresciuta nel mio stesso contesto”, prosegue Abu riferendosi a Souad, “Perchè credi ancora che il sistema europeo sia giusto?”. La giornalista non esita molto a chiedergli quale sia l’alternativa proposta dallo Stato Islamico. “L’alternativa è il Califfato”, risponde sicuro Abu.

Il colloquio tra i due si sposta su un piano sempre più personale, sullo strano parallelismo dei loro background, che è sfociato però in scelte di vita ben diverse.

Credi davvero che l’Occidente ti rispetti?, Ma allora perché sei solo una giornalista?, Perché con tutti i premi che hai vinto non stai facendo carriera in Germania?”: queste le domande che Souad non riesce ad ignorare: effettivamente, nonostante la vincita di prestigiose borse di studio in America e il reportage su uno degli ultimi nazisti residenti al Cairo, non ha un suo programma televisivo in Germania. Ovviamente non ritiene che il Califfato sia la soluzione, ma non può fare a meno di pensare che Abu fa parte di una generazione di giovani musulmani radicalizzati dall’invasione dell’Iraq - come la generazione prima di lui lo è stata dopo l'invasione sovietica dell’Afghanistan.

Nonostante questo, ribatte al jihadista: "anche se ci troviamo di fronte a discriminazioni, a un mondo ingiusto, questa che stai combattendo non è la Guerra Santa. Lo sarebbe stata se fossi rimasto a fare la tua carriera in Europa, ma tu hai preso la via più semplice”.

Dopo questa affermazione cala di nuovo il silenzio. La macchina ritorna vicino all’hotel, la coraggiosa reporter ringrazia e scende dall'auto. Nel cuore ha un po’ di paura per quelle rivelazioni, nella testa un solo pensiero: “Li stiamo perdendo uno dopo l’altro, quel ragazzo poteva essere diverso, avrebbe potuto scegliere una vita diversa”.

10 luglio 2017

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