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"Non è delazione, ma un atto di coraggio"

il terrorista siriano catturato grazie alla denuncia dei suoi connazionali

Tahar Ben Jelloun

Tahar Ben Jelloun (Claude Truong-Ngoc / Wikimedia Commons)

“Siamo tutti chiamati a reagire: la comunità musulmana dei praticanti e di chi non lo è, voi ed io, i nostri figli, i nostri vicini. Non basta insorgere verbalmente, indignarsi ancora una volta e ripetere che questo non è l’Islam. Non è più sufficiente, e sempre più spesso non siamo creduti quando diciamo che l’Islam è una religione di pace e di tolleranza. Non abbiamo il diritto di lasciar fare questi criminali, se decidono che la loro vita non ha più importanza e la offrono a Daesh. Non solo: dobbiamo denunciare chi tra noi è tentato da questa criminale avventura. Non è delazione, ma al contrario un atto di coraggio, per garantire la sicurezza a tutti. Dobbiamo essere vigilanti a 360 gradi”.
Con queste parole lo scrittore marocchino Tahar Ben Jelloun si rivolgeva alla comunità musulmana dopo l’omicidio di padre Jacques Hamel nella sua chiesa a Rouen, in Francia, pochi giorni dopo l’attentato di Nizza.

Appello che arrivava dopo diversi casi in cui i terroristi venivano nascosti da una rete di amici, conoscenti e familiari nelle città dove vivevano. Come nel caso di Salah Abdeslam, uno degli attentatori sopravvissuti agli attacchi di Parigi del 13 novembre, arrestato a marzo a Bruxelles, nascosto da altri tre uomini nel quartiere dove aveva vissuto per mesi.

Sembrano quasi aver udito l’appello di Ben Jelloun, invece, i siriani che hanno denunciato e portato all’arresto il loro connazionale e presunto terrorista Jabar Albakr, che era riuscito a sfuggire al blitz delle forze speciali tedesche nella cittadina della Sassonia dove risiedeva. Dopo la fuga, l’uomo era arrivato a Lipsia. Alla stazione aveva incontrato un siriano e gli aveva chiesto ospitalità. Passata qualche ora, Albakr è stato riconosciuto grazie alle foto segnaletiche e l’uomo che lo aveva portato nel suo appartamento, con l’aiuto di altri due rifugiati, lo ha legato e ha chiamato la polizia. “Ero furibondo con lui, non puoi fare questo a un Paese che ti ha accolto”, ha dichiarato uno di loro.

Da queste parole emerge il sempre più stretto legame tra risposte alla crisi migratoria, narrazione dell’Islam e fondamentalismo. “Abbiamo paura perché proviamo rabbia - scriveva a luglio Ben Jelloun -. Ma la nostra rabbia è l’inizio di una resistenza, anzi di un cambiamento radicale di ciò che l’Islam è in Europa. Se l’Europa ci ha accolti, è perché aveva bisogno della nostra forza lavoro, di dare un volto umano all’immigrazione. Perciò dobbiamo adattarci al diritto e alle leggi della Repubblica”. Se la risposta europea all’immigrazione non sarà l’emarginazione di queste persone, i profughi potranno addirittura diventare uno “scudo” contro l’Isis, come ha dimostrato il coraggio dei tre siriani a Lipsia.

A pochi giorni dalla battaglia di Mosul, che secondo diversi commentatori indebolirà ancora di più l’Isis sul terreno militare, diventa sempre più urgente la battaglia culturale contro il fondamentalismo, affinché i giovani - che, come ha ricordato più volte il professore francese Olivier Roy, sono di fronte a una vera e propria crisi “spirituale”, dovuta alla mancanza di utopie e ideali - non cadano in una nuova forma di radicalismo. Fondamentale sarà non solo trasmettere un Islam calato nel paesaggio culturale europeo, ma anche comprendere chi sono e cosa vogliono gli uomini che si avvicinano il terrorismo, per poter offrire alternative alla scelta di morte e di annientamento dell’altro. 

Martina Landi, Responsabile del coordinamento Gariwo

12 ottobre 2016

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