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Perché gli USA non intervengono in Siria?

un'interessante analisi dalla rassegna stampa di CIPMO

Il Centro Italiano per la Pace in Medio Oriente (CIPMO), diretto da Janiki Cingoli, presenta, nella sua consueta Rassegna Stampa, un articolo del Washington Post che fa il punto su una questione molto sentita: le ragioni del mancato intervento USA nel conflitto siriano. 

In esso si ricorda che il 17 marzo questa guerra sanguinosa è entrata nel suo sesto anno. Le città sono devastate, le persone immiserite e terrorizzate, l'economia del Paese è distrutta. "La Siria è diventata un 'caso di scuola' sulla globalizzazione della violenza, essendo sempre meno sovrana e sempre più preda di banditi e signori della guerra", scrive Steve Heydemann, presidente del Dipartimento Studi sul Medio Oriente dello Smith College. 

Molto è stato scritto sulle cause di questa situazione: tra questi, la crudeltà dei tentativi del regime di Assad di auto-perpetuarsi, l'affermazione del "Califfato" ISIS, la frammentazione dell'opposizione

Il focus dell'articolo è però un altro: "l'insieme di calcoli delle opportunità, degli interessi, dei vincoli e dei costi che hanno portato l'amministrazione Obama a non intervenire". "C'era qualcosa che gli USA avrebbero potuto fare quando Assad stava schiacciando un pacifico movimento di protesta, o per fare seguito al Comunicato di Ginevra del giugno 2012, nel quale l'ONU si proponeva di far cambiare rotta al processo politico siriano, verso una transizione democratica?". si chiede il professore. 

Secondo Heydemann, l'amministrazione Obama è prima di tutto caratterizzata da una grande "avversione al rischio". Se gli effetti dell'inazione sono gravi ed evidenti, tuttavia il Presidente e i suoi consiglieri sarebbero molto più preoccupati di "eventuali" ripercussioni negative di un intervento sugli Stati Uniti. 

Per questo Obama avrebbe patrocinato una sorta di "minimalismo negli interventi". limitando la propria azione contro l'ISIS a bombardamenti dall'alto e cercando per il resto di fornire aiuti umanitari. Farebbe poco contro il regime di Assad e qualcosa in più per limitare la violenza e fare sì che resti confinata all'interno dei confini siriani. Ma il problema è che "il conflitto non ha dato segni di cooperare con il Presidente: i vari gruppi si sono radicalizzati e ne è venuta fuori una sorta di 'mini guerra mondiale'". 

Pesano certamente su Obama i fallimenti degli interventi in Iraq e Afghanistan, sempre secondo Heydemann. E pesa anche il caso della Libia, dove la cacciata di Gheddafi e il collasso dello stato sono avvenuti sotto gli occhi di questo Presidente. Quindi, si tratta di riconoscere anche alcuni fallimenti della politica americana o casi in cui gli interventi hanno arrecato più male che bene. 

Tuttavia l'accademico spiega che ci sono alcune differenze, ad esempio tra la Siria e l'Iraq e l'Afghanistan. In questi casi non vi erano state ribellioni e transizioni pacifiche locali, e il cambio di regime è stato attuato da interventi militari diretti da parte dell'America.  Invece, nel caso siriano un intervento di terra sarebbe da escludere. Né l'opposizione siriana, né gli intellettuali statunitensi lo reclamano. 

Anche chi auspica una maggiore determinazione americana ad agire, vede la questione in termini di sostegno ai moderati siriani. "Ma questi moderati esistono?". Secondo Heydemann la Casa Bianca mostra una conoscenza incoerente del mondo di questi moderati... Alcune volte li descrive come dei "donchisciotte disarmati" e altre come degli "spietati fanatici". Non si sarebbe capito a fondo il ruolo distruttivo dei foreign fighters, un fenomeno relativamente recente di questo conflitto. 

Questa "sottovalutazione" della radicalizzazione avrebbe indebolito alcune chance americane di intervenire "a basso rischio" contro le formazioni terroristiche. Per Heydemann molti dei gruppi fondamentalisti, più che essere guidati dall'ideologia, si servirebbero di essa. Per cui alcune di queste milizie potrebbero perfino aver goduto del "supporto militare ai moderati" garantito dagli USA. Il ruolo dell'ideologia nel conflitto siriano è un problema molto complesso ed è prevedibile che sia anche controverso. Però questo articolo ha il merito di farne parlare, esattamente come menziona anche un'altra domanda che forse sovente rimane inespressa, ma rischia di inquinare il dibattito sulla Siria: "Non vale davvero la pena di intervenire in questa guerra?".

 La Siria non rientra negli interessi strategici degli Stati Uniti? Heydemann reputa che un tale approccio, qualora esistente, sia profondamente "anacronistico" alla luce della consapevolezza della "iper globalizzazione" in cui opera l'Amministrazione americana oggi. In realtà bisognerebbe domandarsi tutta una serie di cose, tra cui se un'eventuale espansione della potenza iraniana nell'area sia di competenza della politica estera USA, se Obama voglia ancora dare seguito alla sua politica denominata "Responsibility to protect", quanto conti la partnership nelle istituzioni internazionali per Washington, se la Casa Bianca voglia competere o cooperare con Paesi dittatoriali come la Russia, etc. Se nel breve periodo il conflitto siriano dovrebbe portare qualsiasi nuova amministrazione a "dosare" i suoi sforzi diplomatici per una pace che non significhi automaticamente il ritorno del brutale Assad o la sottomissione all'Isis, nel lungo termine Heydemann raccomanda soprattutto di occuparsi di quanto i conflitti regionali possano purtroppo destabilizzare l'intero equilibrio internazionale e soprattutto impegnarsi a riconoscere e fermare il vero e proprio "rischio genocidio" presente nella situazione siriana. 

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