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Israele può fare la fine degli armeni?

la riflessione nel nuovo libro di Benny Morris

I turchi hanno perpetrato un genocidio contro i cristiani durato 30 anni, afferma Benny Morris in un nuovo studio. Di seguito pubblichiamo tradotta la sua intervista realizzata da Ofer Aderet su Haaretz del 22 gennaio 2019.

Una spessa pila di pagine giace sulla scrivania di Benny Morris nella sua casa a Srigim, un quartiere residenziale vicino a Beit Shemesh. Settecento pagine, per essere precisi. Su quello in cima spicca un titolo che è tutto un programma, in inglese – The Thirty-Year Genocide (Il Genocidio Trentennale). Morris ha lavorato a questa sua nuova ricerca per nove anni, con il co-autore Dror Ze’evi, suo collega al dipartimento di studi sul Medio Oriente dell’Università Ben Gurion del Negev, a Be’er Sheva.

Come sempre accade con Morris, il suo ultimo lavoro è pieno di scoperte sensazionali – il genere capace di scatenare un putiferio che dal mondo accademico raggiunge presto l’arena politica per sconvolgerla. Stavolta, tuttavia, l’argomento trattato da Morris non è il conflitto israelo-palestinese. “Ho finito con l’assurdità ebrei-e-arabi; ho scritto abbastanza su quel tema”, afferma lo storico con un sorriso.

Le frecciate di Morris sono rivolte a un’altra nazione, nell’area limitrofa a Israele: la Turchia. In cima all’ordine del giorno c’è un genocidio che proseguì per 30 anni, dal 1894 al 1924, e mieté fra 1,5 e 2,5 milioni di vittime cristiane: armeni, assiri e greci. I carnefici, secondo Morris, erano i turchi e i loro collaboratori, che includevano curdi, circassi, ceceni e arabi.

“Il pubblico più ampio conosce, semmai, solo il genocidio armeno, che si verificò nel 1915-1916,” sottolinea. “Nel nostro nuovo studio tuttavia sosteniamo, e mostriamo, che quel massacro non fu un’una tantum, bensì parte di una sequenza più ampia e profonda di eventi, che si protrasse per tre decenni, al fine di eliminare la minoranza cristiana in Turchia", ha dichiarato Morris, aggiungendo: “Vi furono coinvolti tre diversi regimi, dall’Impero Ottomano alla repubblica di Ataturk”. L’esito fu orribile: all’inizio delle brutalità, i cristiani costituivano il 20% della popolazione dello spazio turco; alla fine, soltanto il 2%.

Un massacro si protrae per diversi anni, e solo nel 2019 due storici israeliani lo raccontano al mondo?

Morris: “È piuttosto sorprendente, ma penso che sia la prima volta che questo tema sia studiato. Finora, quasi tutti si sono concentrati esclusivamente sugli armeni, perché essi sono un popolo illuminato e colto che ha prodotto storici che hanno scritto di quanto hanno subito. I moderni greci apparentemente non avevano una tale tradizione, così la gente comune non sapeva ciò che era successo. Centinaia di migliaia di greci furono assassinati, così come metà degli assiri che risiedevano nell’Impero Ottomano; il loro numero calò da 600.000 a 300.000”.

Quando lo interpello specificamente sulla cifra “tra 1,5 e 2,5 milioni”, che è citata nel libro, Morris ammette che “tutti i numeri, incluse le nostre stime, sono problematici”. Le cifre, dice, si basano sul lavoro di storici e statistici turchi, greci e armeni, che hanno esaminato quanti appartenenti ai loro rispettivi popoli vivessero in Turchia prima e dopo il periodo considerato, quanti furono espulsi e quanti semplicemente svanirono.

“La nostra conclusione che fra 1,5 e 2,5 milioni di cristiani furono assassinati, dal 1894 al 1824, è una stima prudente”, afferma Morris.

Una pena lieve

Il mese scorso, Morris ha celebrato il suo settantesimo compleanno. Non molto prima, alla Ben-Gurion University si era tenuta una cerimonia per il suo pensionamento. Morris è nato nell’anno della fondazione di Israele, nel Kibbutz Ein Hahoresh, a nord di Netanya, da genitori provenienti dall’Inghilterra che migrarono in Palestina per ragioni di adesione al sionismo. È cresciuto a Gerusalemme e in seguito ha accompagnato i suoi genitori a New York, dove suo padre era un inviato della diplomazia israeliana. Dopo il liceo è tornato in Israele e ha fatto il militare nella Brigata Nahal. Ha assistito alle azioni sulle Alture del Golan nella Guerra dei Sei Anni del 1967, è stato ferito da bombe egiziane durante la successiva Guerra di Logoramento.

Da riservista, Morris fu incarcerato per essersi rifiutato di prestare servizio nei territori durante la prima intifada. “Ho fatto quanto ritenevo giusto nel 1988”, dice. “La prima intifada era violenta, ma non letale. Era una rivolta popolare. Le persone lanciavano pietre, pochi perirono. Ma per dirla tutta, circa 1000 palestinesi furono uccisi e gli ebrei invece no, perché i palestinesi quasi non utilizzavano le armi da fuoco. Dicevano che non volevano vivere sotto un governo militare e un’occupazione israeliana. Io rifiutai di prendere parte in quell’oppressione quando il mio battaglione fu inviato nella casbah di Nablus. Fui incarcerato per alcune settimane. È una pena lieve. In altri eserciti rifiutarsi di obbedire a un ordine può portare a condanne al carcere di diversi anni.

Si sarebbe rifiutato anche di combattere quando ci fu la seconda intifada?

“No. Nella seconda intifada ero contro al rifiutare di obbedire agli ordini, perché non era solo una ribellione contro l’occupazione israeliana, ma anche un tentativo di portare Israele al collasso. Molti degli attacchi terroristici ebbero luogo sul nostro lato del confine e comprendevano eccidi di massa. C’era una guerra terroristica contro Israele. Rifiutarsi di servire in una simile situazione non è giusto. Al tempo stesso, io sono uno di quelli che non vuole essere inviato come operativo nei posti di blocco o piombare nelle case nel cuore della notte mettendo sotto sopra gli armadi in cerca di armi. Quello è un lavoro molto spiacevole e moralmente problematico. Ma anche il desiderio degli arabi di distruggere Israele è moralmente problematico”.

Morris si iscrisse ai corsi di Storia della Hebrew University di Gerusalemme e conseguì il Ph.D. in Storia europea moderna a Cambridge. Nel 1978, iniziò a lavorare come giornalista al Jerusalem Post, ma scoprì che era più interessato alle indagini storiche che ai reportage. Mentre consultava gli archivi del Palmach, la forza d’élite dell’esercito israeliano prima che fosse fondato lo Stato, si imbatté in alcuni documenti riguardanti i rifugiati palestinesi. Il momento formativo che lo trasformò da giornalista a storico accadde allora, tra gli scaffali dell’archivio, dove trovò l’ordine di espulsione che Yitzhak Rabin aveva emesso per i residenti di Lod durante la guerra del 1948.

“Mi sono reso conto che questo era materiale esplosivo, che poteva compromettere la storiografia sionista in generale e che mutava il quadro delle conoscenze in un modo tale che non c’erano più bravi e cattivi ragazzi, ma due parti che compivano cose che erano sbagliate e terribili”, dice. Questa è l’origine del primo libro di Morris, The Birth of the Palestinian Refugee Problem, 1947-1949, la cui prima edizione fu pubblicata nel 1988 (con una versione riveduta ed espansa apparsa nel 2004). Come tutti i suoi libri, anche questo è stato scritto e pubblicato per la prima volta in inglese e in seguito tradotto in ebraico.

Circa nello stesso periodo in cui questo libro appariva, Morris coniò il termine “Nuovi storici” per riferirsi al gruppo di ricercatori innovativi, guidato da lui, che offrivano una lettura dissenziente della storia del conflitto – “sovversiva, revisionista, che offre un nuovo punto di vista su tutto ciò che accadde nel 1948”, come la descrive oggi. È una lettura che mostra anche il lato oscuro di coloro che erano “dal bel ciuffo e viso” (come il poeta Haim Gouri ha descritto i suoi compagni del Palmach nella sua “Poesia dell’Amicizia”), e che pone sul tavolo parole come “massacro” ed “espulsione”.

Nei trent’anni successivi, Morris ha perseguito il suo studio approfondito delle relazioni di Israele con i suoi vicini ed è diventato uno degli storici di punta del suo Paese. “Mi sento vecchio, il titolo di ‘nuovo storico’ non mi si addice più. Come si può essere nuovi all’età di 70 anni?” domanda con fare assertivo.

Eppure, la nuova ricerca mostra che egli continua ad aderire al suo modo originario di scrivere la storia, che implica la perlustrazione di ogni archivio alla ricerca di verità che sono state edulcorate, cancellate o riscritte da persone con interessi costituiti.

Gli archivi turchi sono stati censurati da generazioni di turchi, a partire dalla Prima guerra mondiale, quando i leader che erano coinvolti nel genocidio bruciavano o nascondevano tutta la documentazione che poteva incriminarli” afferma Morris. Nelle generazioni seguenti, i turchi “riorganizzarono” i loro archivi e “li ripulirono dal materiale più compromettente e dalle cose peggiori” (Dror Ze’evi ha esaminato gli archivi turchi).

Il nuovo libro, che sarà pubblicato ad aprile dalla Harvard University Press, non si presta alla facile lettura. Contiene testimonianze di stermini di massa, di espulsioni letali, di stupri di massa, di rapimenti e di conversioni religiose forzate. Per decenni, le prove furono nascoste in mezzo a migliaia di documenti turchi, americani, britannici e tedeschi scritti da gerarchi, diplomatici, viaggiatori, ufficiali militari, missionarie uomini d’affari che percorsero l’areae riferirono ciò che vedevano in tempo reale.

Uno di loro fu il diplomatico britannico Gerald Fitzmaurice, che visitò la città di Urfa, nella Turchia del sudest, all’inizio del 1896, pochi mesi dopo che vi erano stati massacrati 7.000 dei suoi abitanti armeni.. Urfa, scrisse il diplomatico, aveva “l’aspetto di una città che era stata… ridotta in rovina da una piaga più terribile di qualsiasi guerra o assedio. I negozi con le loro vetrine e porte frantumate, erano vuoti e deserti, praticamente non si vedevano maschi adulti… e solo alcuni bambini e donne malvestiti e malnutriti, con un’espressione terrorizzata sul viso, si vedevano aggirarsi evidentemente in cerca di… pane secco”.

Secondo altri rapporti e testimonianze sul massacro, sempre citate nel libro, le truppe turche accompagnate da una folla inferocita di musulmani attaccarono una cattedrale armena nella città e aprirono il fuoco sui fedeli, gridando che ora Gesù avrebbe potuto provare se era un profeta più grande di Maometto. In seguito, misero a ferro e fuoco la chiesa. Alcuni dei fedeli riuscirono a fuggire dal tetto; altri furono portati via cadaveri, in sacchi pieni di ossa e ceneri.

Alcuni storici greci affermano che circa un milione di loro connazionali siano stati uccisi in Turchia fra il 1914 e il 1924. Tuttavia, queste accuse sono sconosciute al grande pubblico, e nessuno oltre a Morris e Ze’evi ha sostenuto che il massacro dei greci e degli assiri fosse parte di un piano che andò avanti per tre decenni. Questa affermazione è basata su una stima che ci fossero circa due milioni di greci in Turchia prima della Prima Guerra Mondiale, e solo metà di loro riparò infine in Turchia come esiliato durante e dopo la guerra. “Coloro che non raggiunsero la Grecia furono assassinati, affermano”, dichiara Morris. Non c’è modo di verificare quei numeri, e sia lui che Ze’evi stimano che si trattasse di centinaia di migliaia di persone.

Nel giugno 1922, i missionari americani riferirono dalla regione del Ponto sulla costa sudest del Mar Nero che tutti i villaggi del posto, in precedenza abitati da greci, erano vuoti. Si stima che circa 70.000 dei greci espulsi fossero passati attraverso la città di Sivas, procedendo verso ovest, a un ritmo di 1.000 o 2.000 a settimana. Le donne e i bambini che vi erano stati visti erano “affamati, infreddoliti, malati, seminudi … in tale maniera che non sembravano quasi umani”. Una donna dell’area di Bafra riferì che aveva visto bambini morti assiderati. Un’altra missionaria, che raggiunse Sivas nell’agosto 1921, disse: “Abbiamo attraversato l’Anatolia sotto un sole cocente, passando oltre gruppi … guidati da gendarmi turchi. I cadaveri di coloro che erano caduti durante la sfacchinata giacevano ai bordi della strada. Gli avvoltoi avevano mangiato parte delle loro carni, così che nella maggior parte dei casi rimanevano soltanto gli scheletri”.

Successivamente, questa stessa missionaria incontrò deportati anche nell’area di Haarpoot, che descrisse come “una città piena di derelitti affamati, malati e in rovina”. Nelle sue parole, “queste persone cercavano di preparare zuppe con l’erba e si consideravano fortunate quando potevano cibarsi di un’orecchia di pecora … Non dimenticherò mai l’aspetto di un’orecchia di pecora dal pelo nero che fluttuava nell’acqua di bollitura … e quei poveri derelitti che cercavano nutrimento da essa”. Ella aggiunse che i turchi li avevano fatti morire di fame nel corso di una marcia di 800 km. Solo coloro che avevano i soldi necessari per corrompere le guardie sopravvivevano. Chi era senza soldi moriva al bordo della strada. In molti luoghi, dove questi derelitti arrancavano assetati sotto il sole cocente, le guardie proibivano loro di bere acqua”.

Secondo Morris, molti in quei convogli morirono non di fame o di stenti, ma “semplicemente” assassinati dai turchi. Un sopravvissuto a un massacro che era stato perpetrato intorno alla città portuale di Samsun, sulla costa nord del Paese, riferì che si era finto morto, e che 660 persone erano state giustiziate sotto i suoi occhi. “Le guardie vennero e ci spogliarono di tutti i nostril vestiti, lasciandoci solo maglietta e mutande, che erano sporchi di … sangue”. Coloro che rimanevano sul posto venivano “lasciati senza cibo e acqua e quasi completamente nudi”.

Un sopravvissuto 19 enne ricordò che il convoglio con cui era deportato si fermò un giorno e “le guardie improvvisamente aprirono il fuoco … [quindi] si aggirarono con i coltelli e le baionette assicurandosi che coloro … a cui avevano sparato ... fossero morti”. Egli si rannicchiò in un fosso e si finse morto. I turchi allora “[lo] pugnalarono a un braccio e nella schiena”. Solo 300 su 1.000 persone sopravvissero al massacro, disse.

Morris ha verificato anche i rapporti degli ufficiali della Marina Americana che solcavano il Mar Nero e il Mediterraneo, gettando l’ancora nei porti turchi. “Essi parlarono con i leader locali – turchi, greci e armeni -, udirono ciò che stava succedendo e lo registrarono nei loro diari di bordo. Era tutto molto ordinato”, osserva. E quindi, un secolo dopo, egli ha trovato documenti che nessuno in precedenza si era preso la briga di esaminare, sulla deportazione e lo sterminio di massa dei greci da parte dei turchi, come riferito dagli americani che avevano avuto la ventura di trovarsi nella zona.

Morris ha anche trovato documenti redatti dai tedeschi nel 1916, che descrivevano l’annientamento sistematico di decine di migliaia di armeni, che i turchi avevano esiliato deportandoli con convogli, ma che in qualche maniera riuscirono a raggiungere il deserto siriano vivi. “I tedeschi che erano nella regione a quel tempo avevano registrato quanto avevano visto, e inviato rapporti ai loro consoli, che li passarono all’ambasciata tedesca di Istanbul o a Berlino”, afferma. Quindi, lui e Ze’evi hanno ottenuto accesso a ulteriori testimonianze sul rastrellamento degli armeni dai campi e dai villaggi dove erano stati inviati dopo mesi di marcia estenuante, e del loro successivo assassinio nelle aree limitrofe.

Mustafa Kemal Ataturk è ricordato come un leader che lasciò dietro di sé un’eredità di laicizzazione e modernizzazione – c’è perfino una via di Tel Aviv a lui dedicata. Ma il suo studio lo ritrae in maniera piuttosto negativa.

“In qualche modo, la sua immagine di persona illuminata era custodita e preservata in Occidente, me egli fu colui che volle la liquidazione degli ultimi armeni che rimanevano in Turchia, e inoltre promosse l’assassinio di centinaia di migliaia di greci e di assiri e l’esilio di molti altri. Anche se Ataturk è considerato anti-islamico, ha mobilitato l’Islam per eseguire quel piano, ed è colui che si disfò degli ultimo rimasugli delle comunità cristiane in Turchia. Ciò non di meno, la colpa della pulizia etnica non è mai stata addossata a lui”.

I documenti turchi concernenti l’attività di Ataturk sono depositati all’Archivio Militare Turco di Ankara e sono inaccessibili ai ricercatori. Tuttavia, le testimonianze di diplomatici e missionari occidentali indicano che egli disse, in loro presenza e a loro – e più di una volta nel 1922 – che voleva una “Turchia priva di cristiani” e che aveva ordinato l’attuazione di una politica che avrebbe portato a quel fine, il che stava a significare o esilio o massacro.

La prova più convincente che Morris ha trovato del coinvolgimento di Ataturk risiede nel fatto che I suoi soldati compirono “assassini ed esili di massa a diverse ondate – e nemmeno un turco fu punito per questo”, dice. “Ataturk controllava le azioni dei soldati in modo decisamente assoluto in quegli anni”.

Da sinistra a destra

Il libro precedente di Morris, intitolato From Deir Yassin to Camp David (Deir Yassin è un villaggio dove nell'aprile 1948 avvenne uno scontro particolarmente duro, dove i palestinesi e diversi storici sostengono che le forze del nascente stato di Israele abbiano massacrato la popolazione araba, NdT) – una collezione di saggi originariamente pubblicati in inglese e poi tradotti in ebraico – non contiene nuovi testi, ma è una raccolta dei suoi saggi personali, politici e storici. È una sorta di riassunto del ruolo che il tema israelo-palestinese ha avuto nella carriera di Morris. Inizialmente, trent’anni fa, egli veniva attaccato dalla destra come un “sinistrorso” e un “traditore”, quando rivelava documenti che attstavano il fatto che, contrariamente alla posizione ufficialmente accettata, molti palestinesi non lasciarono il Paese di propria volontà, ma furono espulsi o costretti alla fuga, e alcuni furono assassinati e violentati dai soldati delle Forze di Difesa Israeliane. Ma alla fine della sua carriera, egli è stato definito un “destrorso” e “uomo di Bibi” dalla sinistra, dopo avere compiuto una svolta politica e, basandosi sugli stessi studi, ha accusato i palestinesi per il deterioramento del conflitto allo stato attuale.

“Io tendevo a destra nel contesto politico, non storiografico; sono sempre uno storico e non un politico”, spiega, rispondendo a coloro che dubitano della sua integrità professionale. “Il cambiamento che ho affrontato è legato a una questione: la prontezza dei palestinesi ad accettare la soluzione dei due Stati e di rinunciare a parte della Terra di Israele”.

Dopo la seconda intifada, aggiunge, egli ha capito che i palestinesi non consentirebbero a rinunciare alla propria richiesta originaria di “avere l’intera Terra di Israele in loro possesso e sotto la propria sovranità. Non ci sarà alcun compromesso territoriale, non ci sarà pace sulla base della divisione del Paese, soprattutto perché i palestinesi restano aggrappati al loro desiderio di controllare l’intera Terra di Israele e sradicare il sionismo”.

Ma qual è il ruolo di Israele nel fallimento dei negoziati? Altri storici ritengono che, nel 2000, Ehud Barak avesse offerto a Yasser Arafat una mappa che avrebbe frammentato la West Bank, e che non c’era modo per lui di convenire su essa.

“Chiunque dica che Barak e Bill Clinton abbiano fatto ai palestinesi un’offerta che essi non potevano accettare sta mentendo. Dennis Ross, il principale negoziatore, ha già mostrato nel suo libro che tale affermazione è falsa. La mancanza di continuità territoriale avrebbe riguardato solo Gaza e la West Bank. Essi ofrirono un blocco territoriale continuo pari al 95% della West Bank, e loro l’hanno rifiutato. Ma la storia qui non riguarda un piano piuttosto che un altro, ma il fatto che essi vogliono il 100% del territorio della Palestina Mandataria. Stavano semplicemente facendo il loro gioco quando dissero che erano pronti per un compromesso.

“Il movimento nazionale sionista aveva accettato un compromesso – nel 1937, nel 1947, nel 1978, nel 2000 e nel 2008 – sulla base di due Stati per due popoli. È vero che c’è un governo che non è pronto per un compromesso, in Israele. Secondo alcuni, se Rabin fosse ancora qui, avrebbe già raggiunto un accordo con i palestinesi. Ma è un’assurdità. Neanche Rabin sarebbe stato capace di apportare un cambiamento nell’ethos fondamentale del movimento nazionale palestinese: che tutta la Palestina è loro e i rifugiati devono tornare alle loro case e alla loro terra. E se questo succede, sarà solo sulla base della distruzione di Israele”.

È questa consapevolezza che l’ha portato a muoversi verso destra, ha dichiarato Morris. “Sono diventato pessimista su questo tema e, in una certa misura, di destra”, osserva, ma immediatamente si autodefinisce: “Credo ancora che l’unica giusta soluzione per le due parti sia la divisione della terra in due Stati. Mi dispiace molto dover dire che questa è una soluzione non realistica, che non si verificherà”.

Lei è la pecora nera dei Nuovi Storici. Avi Shlaim, Tom Segev e Ilan Pappe non hanno preso la sua strada verso posizioni di destra. Così, o lei è l’unico che ha visto la luce, o è l’unico che si è sbagliato.

“Alcuni di loro hanno concluso, a partire dalla seconda intifada, che Israele è uno Stato oppressore che continua a governare su una nazione straniera e compie un uso eccessivo della forza come risposta al terrorismo. Pappe in realtà è diventato totalmente antisionista. Io ho un punto di vista minoritario, ma nel mondo intellettuale la minoranza generalmente ha ragione. La cosa da fare è mettersi nei panni di entrambe le parti e comprendere le loro motivazioni, e io le capisco entrambe molto bene. Prenda Tom Segev per esempio, che nel suo libro 1967: Israel, the War, and the Year that Transformed the Middle East, sostiene che siamo andati in guerra per avidità di terra ed espansionismo, ma la verità è che l’avidità era stata provocata dalla guerra e non c’era prima”.

La spinta verso destra di Morris è accompagnata da un apprezzamento limitato nei riguardi del Primo Ministro Benjamin Netanyahu – una rarità fra gli accademici umanistici israeliani. “Non c’è quasi nessuno all’orizzonte capace o degno di sostituire Netanyahu e di essere un primo sinistro accettato dal grosso della nazione”, dice.

Quindi non ha critiche da rivolgergli?

“Sono molto critico nei suoi confronti su tutti i tipi di questioni, come la gestione della residenza di Balfour Street e la corruzione pubblica che egli sostiene o perfino incarna. Non accetto neanche le sue osservazioni antidemocratiche sugli arabi di Israele. Le sue azioni nella sfera della religione, l’espansione degli insediamenti e la definizione di quella che deve essere per lui la nazionalità ebraica gli alienano le simpatie degli ebrei americani, la maggior parte dei quali disprezzano l’Ortodossia e il nazionalismo estremo”.

Un altro punto sul quale lo storico è critico nei confronti di Netanyahu sembra sorprendente, visto che proviene da qualcuno che afferma che non ci siano possibilità di una pace per i palestinesi: “la sua non volontà di parlare con i palestinesi di un compromesso territoriale. Egli non avanza alcun argomento che possa stimolarli a sedersi attorno a un tavolo”.

Ma lei stesso dice che non c’è nessuno a cui parlare, quindi perché criticare Netanyahu su questa questione?

“Anche se il compromesso territoriale con i palestinesi non è realistico in questa generazione, del resto come prima, bisogna giocarsi le carte diplomatiche – anche se si sa che ciò non porterà da nessuna parte – per poter conservare la simpatia dell’Occidente. Bisogna apparire interessati a perseguire la pace, anche se non lo si sta facendo”.

Come vede lei la vicinanza di Netanyahu a Donald Trump?

“Mi aspetto che la caduta e la cacciata di Trump, quest’anno o nel 2020, portino necessariamente all’indebolimento, se non alla compromissione del rapporto speciale degli Stati Uniti con Israele, per via della totale identificazione di Bibi con quella folle canaglia. Inutile dire che molti ebrei in America sottolineano una somiglianza fra Trump e Bibi in termini del loro atteggiamento verso la legge e i suoi custodi. Involontariamente, Netanyahu sta operando a diversi livelli per portare avanti la crisi definitiva dei legami fra Israele e gli ebrei americani e sovvertire le relazioni USA-Israele”.

D’altro canto, Morris elogia Netanyahu per la sua ferma posizione contro l’Iran e il suo programma nucleare. Morris ha scritto sull’argomento già nel 1992, in un editoriale intitolato “Pericolo nucleare: la non-questione di Israele” (“Nuclear Peril: Israel’s Non-Issue”) sul New York Times. Tuttavia, se dipendesse da Morris, Israele avrebbe già agito. “Uno degli errori più grandi di Netanyahu è stato di non bombardare le strutture [nucleari] iraniane nel 2012”, afferma. “Ciò avrebbe generato un’escalation, ma Hezbollah e Hamas non sono una questione vitale, e noi avremmo potuto invadere il Libano di nuovo e portare a termine il lavoro più efficacemente di quanto non avesse fatto Ehud Olmert nel 2006”.

Riscrivere la storia

Se fosse possibile tornare indietro nel tempo come “ministro della Storia”, che cosa correggerebbe?

“Se la Guerra di Indipendenza fosse finite con una definitiva separazione fra le popolazioni – gli arabi palestinesi a est del fiume Giordano e gli ebrei sul lato ovest – il Medio Oriente sarebbe meno incline a infiammarsi ed entrambi i popoli avrebbero sofferto meno negli ultimo 70 anni. Loro sarebbero stati soddisfatti di un proprio Stato, anche se non esattamente quello che volevano, e noi avremmo ricevuto l’intera Terra di Israele”.

Sta dicendo in realtà che Israele avrebbe dovuto compiere una pulizia etnica degli arabi in quell periodo?

“Non posso mettermi nei panni delle persone di quel tempo e dei loro calcoli. David Ben-Gurion voleva che rimanessero meno arabi possibili nello Stato ebraico alla fine del 1948, e egli si assicurò che i suoi ufficiali l’avessero capito. Ma sapeva che ordinare l’espulsione degli arabi non andava bene nel momento della rinascita di uno Stato. Così si mosse sempre fra due estremi. A Lydda e Ramle autorizzò l’espulsione, ma a Nazareth la bloccò. Il risultato fu che alla fine della guerra, 160.000 arabi rimanevano in Israele.

E lei pensa che sia stato un evento infelice e inopportuno ciò che è accaduto?

“Ci sono persone che lo pensano. Io ritengo che un’ampia minoranza araba nello Stato ebraico, se si identifica con la narrazione palestinese e il desiderio dei palestinesi di liberarsi di Israele, come alcuni rappresentanti della società araba eletti alla Knesset e in altri organismi stanno facendo – c’è un problema. Gli arabi israeliani hanno dei diritti qui che vanno molto oltre quelli garantiti ai cittadini degli Stati arabi, ma automaticamente vengono risucchiati nella propaganda antisionista come quella condotta da Arafat o oggi da Hamas. Nel 2000, durante la seconda intifada, abbiamo visto rivolte, pietre lanciate contro le macchine, blocchi stradali, dentro Israele, compiuti da arabi israeliani. Grazie a Dio non è diventata una vera rivolta. Ognuno deve immaginare da sé se sia stata fatta la cosa giusta nel 1948 o no. Io penso che sarebbe stato meglio per entrambe le parti se ci fossimo separati allora.

“L’integrazione degli arabi nella società israeliana e la loro lealtà allo Stato dovrebbero essere incoraggiate … ma essi in prima persona non sono autocritici verso le proprie azioni e discorsi – ma sono solamente critici di quelli degli ebrei. Così, se un arabo uccide un arabo in un villaggio arabo, automaticamente essi accusano la polizia di non vigilare abbastanza, ma non accuseranno se stessi dicendo che gli arabi uccidono altri arabi, perché sembra abbastanza naturale lì”.

Sta parlando di un “carattere” arabo che li porta a uccidere come se non ci fosse un contesto – discriminazione nei bilanci per i progetti sociali, esclusione dalle posizioni di potere, etc.

“Nel mondo arabo – e gli arabi israeliani fanno parte di esso – si trova una mancanza di autocritica. Bisogna sempre dare la colpa agli stranieri. Gli inglesi, i russi, gli ebrei, gli israeliani – è importante attribuire la colpa dei propri guai a qualcun altro. La loro società genera molta più criminalità in confronto alla società israeliana. Se mi doveste dire che sono più poveri e quindi hanno molti più delitti contro la proprietà e furti, io direi: ‘Giusto, le società povere generano crimini contro i beni materiali. Ma noi parliamo di molti più omicidi. Non è questione di soldi. È la natura di quella società”.

Il titolo del suo nuovo libro contiene la parola ‘genocidio’ per descrivere ciò che i turchi fecero alla minoranza Cristiana. Il titolo del suo libro precedente conteneva il nome ‘Deir Yassin’. Nel discorso pubblico palestinese, ci sono alcuni che sostengono che Israele stia perpetrando un ‘genocidio’ contro di loro. Tra gli storici israeliani, come ad esempio Daniel Blatman, ci sono anche alcuni che ammoniscono sul rischio che Israele adotti un’ideologia capace di portare come conseguenza ultima alla perpetrazione di un genocidio.

“Questi paralleli sono generalmente scorretti e ridicoli. Ciò che accadde ai palestinesi dal 1948 in poi è una certa oppressione, che comprende, qui e là, un piccolo numero di crimini – ma avvenuti nel quadro di una guerra fra due movimenti nazionali, che possono esserne incolpati. Il risultato è stato che alcune persone sono state uccise, ma non si tratta di genocidio, anche se la propaganda palestinese ne parla e persone come Blatman ci paragonano ai nazisti. Bisogna essere accurati e attenersi ai fatti. I nazisti uccisero sei milioni di persone che non li stavano combattendo. Ciò è diverso da uccidere in combattimento palestinesi che stanno lottando contro di te e ti infliggono delle vittime.

I massacri sono crimini. Nelle guerre le persone vengono uccise e talora massacrate. Non è bello, ma è ciò che accade. Ma quando si esaminano i massacri in altre guerre, particolarmente in altre guerre civili, ciò che accadde qui nel 1948 sembra una guerra molto pulita, tutto sommato. Il numero degli arabi civili o militari deliberatamente assassinati ammonta a circa 800. E questo in una guerra che loro avevano iniziato e nella quale avevano massacrato ebrei, una guerra che durò più di un anno”.

E che cosa dice del razzismo, dell’estremismo e della violenza politica? Ci sono alcuni che ammoniscono sull’emergere di avvisaglie simili a quelle che si videro nella Germania nazista.

“Questo è prima di tutto sciocco, scorretto e disonesto. Io non so in che direzione stia andando Israele. È vero che sta diventando di destra e religiosa, e questo non sembra positivo. Ma siamo molto lontani dall’essere come la Germania, dove c’era un forte movimento nazista che uccideva le persone per strada perfino prima di prendere il potere. Non siamo a quel punto, per cui non dovremmo mettere il carro davanti ai buoi e fare di questi paragoni”.

Nel capitolo del suo ultimo libro, intitolato “The Historiography of Deir Yassin,”lei tratta il tema che ha imperversato per decenni su ciò che accadde in quel villaggio nella periferia occidentale di Gerusalemme nell’aprile 1948. Perché dopo tanti anni non è stato ancora determinato se ci fosse stato un massacro lì o no?

“Si tratta di un dibattito di tipo semantico. Se prende 50 prigionieri, li allinea contro un muro e li uccide, come accadde nel villaggio di Jish [Gush Halav, in Alta Galilea] nel 1948, è un massacro. Questo non si è verificato a Deir Yassin, dove furono uccise poche persone, furono fatti pochi prigionieri e gli altri non vennero uccisi. In tutto, circa 100 civili furono assassinati. Così la questione è: metti insieme alcune atrocità e arrivi a 100 vittime, e lo chiami un massacro, o dici: ‘Alcune famiglie vennero uccise qui e là, deliberatamenteo meno, in diversi luoghi e in differenti momenti, così forse è una serie di atrocità contro i civili e non un massacro?”.

Che cosa significa questo? Che non c’è una sola verità?

“C’è la verità. Ci sono fatti indiscutibili. Gli storici devono lavorare sulla base di documenti ed estrarre da essi ciò che che porta a chiarire la verità, per scoprire ciò che accadde e quali sono i fatti. Lo storico deve attingere a quante più fonti possibili, come diari e libri di memorie, rapporti ufficiali e testimonianze di persone che si trovavano nei teatri di guerra. Deve quindi soppesare le varie prove. Non deve nascondere le testimonianze che non sono coerenti con ciò che pensava che fosse successo. E infine, deve valutare verso dove inclina la maggior parte delle testimonianze e dei documenti”.

Si sa che lei nutre delle riserve sulle testimonianze orali. Ma qualche volta il ricordo d’infanzia dell’anziano del villaggio, o le impressioni del combattente veterano, offrono una migliore descrizione di ciò che accadde di un particolare documento che fu nascosto, riscritto o non fu mai scritto del tutto.

Bisogna guardare alle motivazioni di chiunque abbia scritto un documento, al suo interesse a promuovere una verità e non un’altra. Ma non c’è dubbio che un documento contemporaneo, scritto lo stesso giorno in cui si compiva l’evento, in prossimità geografica e cronologica con ciò che vi viene descritto, è molto più affidabile di una conversazione con una persona 50 anni dopo, quando nel frattempo si sono sentite migliaia di versioni della storia. C’è anche il problema della perdita di memoria o della rimozione degli eventi che uno non vuole ricordare”.

Il caso del “massacro di Tantura”, per citare il titolo di un altro capitolo del suo ultimo libro, è un esempio delle difficoltà della storia orale. Teddy Katz, un attivista pacifista del Kibbutz Magal, che ha intervistato 135 rifugiati di Tantura come pure soldati dell’Haganah e dell’IDF, ha concluso che i soldati della Brigata Alexandroni perpetrarono un massacro nel villaggio costiero 30 km a su di Haifa nel maggio 1948. I veterani di quell’unità lo hanno querelatohanno dimostrato che egli aveva falsificato le prove.

“Nel caso Tantura, le persone apparentemente ricordavano cose accadute 40 prima, ma i documenti disponibili non corroboravano ciò che essi ‘ricordavano’. La linea del Piave qui è che è necessario attenersi alla documentazione. Dato che la burocrazia moderna è così ampia e produce così tanto materiale scritto, se si ci si impegna adeguatamente la si troverà. Se c’è della carne al fuoco, il fumo definitivamente apparirà, sottoforma di inchiesta dell’IDF, di rapporto degli osservatori delle Nazioni Unite, di un’annotazione in un diario israeliano – ma sempre, secondo la mia esperienza, i documenti alla fine salteranno fuori, confermando o smentendo le supposizioni successive.

Finché dall’Archivio dell’ IDF o dagli Archivi di Stato non viene deciso di censurarli …

“In passato vi era censura, e ce n’è anche oggi, perfino di più. È un problema che complica il compito di giungere alla verità. I file che sono stati aperti per me negli anni ’90 ora sono chiusi ad altri ricercatori. Per esempio, a proposito di Deir Yassin, uno dei file che era chiuso anche allora contiene le fotografie delle vittime. Si trova nell’Archivio dell’IDF e non è stato mai aperto. Come storico, penso che sia terribile, perché quando materiale come quello viene nascosto, è un tentativo di distorcere l’immagine del passato, ribaltarlo e fare apparire tutto roseo. Se stanno facendo questo riguardo a Deir Yassin, probabilmente lo stanno facendo anche con riguardo a molti altri documenti, come politica”.

Morris, sposato, padre di tre figli e nonno di nove nipoti, dice che ha in progetto di scrivere una biografia “su un argomento non legato al conflitto”. Quando gli chiedo se rimpianga qualcosa nella sua carriera, risponde: “Possibilmente avrei dovuto moderare i termini”, riferendosi ad alcune delle cose che disse in un’intervista realizzata da Ari Shavit di questo giornale nel gennaio 2004.

In quell’intervista, Morris ha dichiarato: “Vi sono circostanze storiche che giustificano la pulizia etnica”, e ha spiegato: ‘So che questo termine è del tutto negativo nel dibattito politico del 21° secolo, ma quando la scelta è tra pulizia etnica e genocidio – l’annientamento del tuo stesso popolo – io preferisco la pulizia etnica degli altri”. Ha anche detto: "Bisogna costruire qualcosa di simile a una gabbia per loro [i palestinesi]. So che sembra terribile. È davvero crudele. Ma non c’è scelta. C’è un animale feroce lì fuori che deve essere rinchiuso in un modo o nell’altro”.

La mia conversazione odierna con Morris rapidamente scivola nelle acque di un pessimismo profondo. “Non vedo vie d’uscita”, dice con riferimento alla possibilità di una continuità di Israele come Stato ebraico. “Già oggi ci sono più arabi che ebrei tra il mare [Mediterraneo] e il Giordano. L’intero territorio sta inevitabilmente diventando uno Stato con una maggioranza araba. Israele si autodefinisce ancora uno Stato ebraico, ma una situazione nella quale dominiamo su un popolo occupato che non ha diritti non può continuare nel 21° secolo, nel mondo moderno. E a mano a mano che essi acquisiscono diritti, lo Stato non sarà più ebraico”.

Che cosa accadrà?

“Questo posto andrà incontro al declino come uno Stato medio-orientale a maggioranza araba. La violenza tra le diverse popolazioni, all’interno dello Stato, aumenterà. Gli arabi richiederanno il ritorno dei rifugiati. Gli ebrei rimarranno una piccola minoranza in un vasto mare di arabi palestinesi, una minoranza perseguitata e massacrata, com’erano quando vivevano nei Paesi arabi. Gli ebrei che potranno, fuggiranno in America e in Occidente”.

Quando pensa che ciò accadrà?

“I palestinesi guardano a tutto quanto con una prospettiva ampia, di lungo termine. Vedono un momento in cui ci saranno cinque, sei, sette milioni di ebrei qui, circondati da centinaia di milioni di arabi. Non hanno ragioni di arrendersi, perché lo Stato ebraico non può durare. Vinceranno. In altri 30 o 50 anni ci supereranno, qualunque cosa accada”.

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