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L'antidoto della storia contro il negazionismo

intervista a Claudio Vercelli

"La risposta sta allora nello sviluppare l’antidoto della storia". Questo il rimedio al negazionismo secondo Claudio Vercelli, autore del libro Il negazionismo. Storia di una menzogna, che sarà presentato lunedì 3 giugno alle ore 20.30 al Memoriale della Shoah di Milano. Ecco quello che ha detto a Gariwo.

Come e da cosa nascono i negazionismi? Hanno un preciso punto di inizio nella Storia?

È senz’altro corretto parlare al plurale. Esistono più negazionismi, identificati con aree politiche e culturali distinte e con momenti storici altrettanto diversi. Tuttavia, se ci riferiamo alla negazione della Shoah, c’è una sorta di epicentro che ha la sua origine nel nazismo medesimo. L’opera criminale dei tedeschi, soprattutto tra il 1941 e il 1945, quando più intensa fu l’azione di sterminio, tra le Einsatzgruppen, i reparti mobili che fucilavano la popolazione civile, soprattutto gli ebrei, nelle retrovie dell’Est occupato dall’esercito di Berlino, e i Vernichtungslager, i campi di sterminio propriamente detti, implicava la distruzione fisica non solo delle vittime ma anche degli indizi del crimine medesimo. In altre parole, alla dissoluzione dei corpi, compiuta con la loro polverizzazione nei forni crematori, si accompagnava la cancellazione delle prove di quanto veniva fatto. Molti dei luoghi di sterminio dove è stato distrutto l’ebraismo europeo (si pensi solo a Treblinka, per fare un esempio), sono stati smantellati prima dell’arrivo dei sovietici (ad Est) e degli alleati (ad Ovest). Ciò che ci è rimasto è letteralmente sopravvissuto all’opera sistematica di annientamento nazista: persone, ma anche cose, oggetti, documenti, luoghi. Non di meno dell’assassinio, infatti, si compiva anche l’opera di rimozione della memoria di ciò che era avvenuto. Il nazismo non voleva solo cancellare le persone, ma anche il loro ricordo. In tale modo, a ben pensarci, a distanza di una o due generazioni, non si sarebbe preservato neanche il memento elementare dello sterminio. Una sorta di delitto perfetto, perché paradossalmente “inesistente”. Il negazionismo, quindi, è consustanziale al nazionalsocialismo, proseguendone l’opera.

Quali sono oggi i fenomeni di negazionismo nel mondo?

Per sommi capi, al negazionismo di area neonazista e fascista – che vuole cancellare il ricordo delle cose peggiori del passato per poi potere dire che quei regimi in fondo non erano così brutali e devastanti - , si sono aggiunte nuove, e molto più subdole, espressioni di negazionismo. A partite dagli anni Settanta, infatti, il negazionismo, che nel frattempo aveva assunto vesti falsamente “tecniche”, fingendo di non volere fare un discorso strettamente ideologico ma, più semplicemente, di intendere porre a verifica fonti e prove del passato, ha ottenuto qualche udienza nella stampa e nella pubblicistica europea. In maniera non eccessiva, ma quanto basta per creare dei “casi” eclatanti, capaci di attirare l’attenzione su di sé, nel nome di una fittizia “libertà di coscienza”, di “ricerca” e di “espressione”. I negazionisti, parassitariamente, si nascondono tutt’oggi dietro queste enunciazioni di principio, per poi portare avanti la loro battaglia conto la verità e l’evidenza dei fatti. Negli ultimi due decenni hanno trovato insperate opportunità in due ambiti collettivi, ossia in una parte del mondo arabo-islamico, soprattutto tra i movimenti del radicalismo politico islamista, e nel web, nella cybesfera, dove passa di tutto e di più. 

Ci sono affinità tra il negazionismo della Shoah e il mancato riconoscimento del genocidio armeno?

Ci sono alcune affinità e delle differenze. Le affinità stanno soprattutto nella radicata (e radicale) volontà di disconoscere, a priori, il diritto all’esistenza di una comunità a sé, nelle sue peculiarità, ancorché parte di un società più ampia. È la rimozione della diversità come valore intrinseco. Negare che essa nel passato sia stata fatta oggetto di violenze di Stato implica, il più delle volte, negare ad oggi il diritto stesso alla sua presenza sulla terra. Il negazionismo non vuole solo rimuovere i crimini, ma anche le vittime dei crimini, disconoscendo nella coscienza collettiva i primi e, in immediato riflesso, le seconde. Dopo di che, la questione del mancato riconoscimento del genocidio armeno rinvia, nelle sue peculiarità storiche (e qui andiamo sul versante delle differenze) alla questione del ruolo mediterraneo dello Stato turco, dell’eredità dell’ottomanismo, e della geopolitica di quel Paese nel mondo contemporaneo. Si tratta di un negazionismo di Stato, che è però ancora una volta la diretta prosecuzione dell’omicidio stesso con altri strumenti, quelli del vuoto: non c‘è mai stato nulla di male in quanto, come turchi, abbiamo fatto nel passato. Non esiste una specificità armena. E via dicendo. Le correlazioni tra la negazione del passato storico e la costruzione di un presente artefatto, si rivelano da sé, ad un analisi sufficientemente argomentata.

Sappiamo che esiste un forte fenomeno negazionista nel mondo arabo. Esiste un legame tra questo fenomeno e l’islamismo radicale? 

Sì, il legame è netto e comprovato. Il radicalismo islamista si nutre di antisemitismo, usando il conflitto israelo-palestinese come una sorta di pretesto, valido in ogni circostanza, per motivare le sue ragioni ideologiche, a patire dalla necessità di combattere l’ “Occidente colonialista e schiavista” che sarebbe manovrato dagli stessi ebrei. Non è solo l’antisionismo viscerale, l’odio per la cosiddetta “entità sionista”, ma una specie di meccanismo mentale di avversione/emulazione (le due cose a volte sono speculari) nei confronti di ciò che viene vista come la “madre” di tutte le nequizie, la presenza al mondo di società egemoniche, quelle per l’appunto occidentali, composte da “infedeli”, che rapinano sistematicamente le genti oppresse. Gli ebrei, secondo questa visione apocalittica, sarebbero i burattinai del male. Denunciare, per così dire, quella che chiamano la “menzogna di Auschwitz”, implica il delegittimare Israele ma anche e soprattutto dire che le vere vittime della storia non sarebbero coloro che hanno sofferto una reale tragedia bensì gli oppressi dell’oggi, di cui l’islamismo radicale si incarica di fungere da rappresentate politico esclusivo, ovvero monopolistico.

Solitamente i regimi genocidari negano tale definizione e non riconoscono lo sterminio che stanno compiendo. Qual è la differenza tra questo tipo di negazionismo e quello inteso più genericamente di coloro che negano un massacro passato?

La differenza è fondamentale e sta essenzialmente in un solo fatto: se il negazionismo è politica di Stato, esso non è più un’opinione ma una verità obbligata. Un conto è avere a che fare con individui, perlopiù appartenenti a minoranze politiche, culturali e ideologiche, che possono fare affermazioni irritanti, al limite scandalose, magari sanzionabili penalmente o comunque punibili sul piano della morale civile. Altro discorso è essere impediti di affermare i dati dell’evidenza, dovendo forzatamente aderire ad un discorso pubblico, ripetuto ossessivamente,  che si basa sul sistematico occultamento delle tragedie che uno Stato, in genere totalitario, senz’altro fortemente autoritario, ha causato. Un esempio, in tal senso, sono alcuni crimini dello stalinismo (l’isolamento e la distruzione della classe media agraria in Ucraina negli anni Trenta e la rimozione dalla coscienza collettiva di tale fatto), ma anche le condotte di certi regimi liberali, negli anni del colonialismo, non sono del tutto esenti da tali meccanismi. La memoria collettiva è un meccanismo complesso, facilmente manipolabile da organismi pubblici che si dotino di una politica del ricordo orientata verso obiettivi di artefazione del passato. L' invio d’obbligo è al George Orwell del 1984.

Con l’affermazione di Internet il negazionismo ha ricevuto una visibilità più ampia. Qual è il rapporto tra i negazionisti e il web?

Il web è per loro un campo di grandi opportunità, quasi una sorta di prateria smisurata, senza confini. Ciò rinvia non tanto al negazionismo in sé quanto al tipo di percezione della realtà che il mondo virtuale induce nei suoi fruitori incauti. Non si tratta di dire che internet, la cybersfera siano di per sé menzognere. Non è così. Piuttosto, nella virtualità la dimensione fisica dell’esperienza, della ricerca dei dati, dell’analisi delle fonti, della valutazione critica del racconto  – che sono parti imprescindibili non solo della ricerca storica ma anche della costruzione di una coscienza critica – tendono a stemperarsi, sostituite da una falsa equivalenza tra narrazioni alternative, come se si trattasse di soppesare non la veridicità delle medesime ma il loro grado di seduzione intellettuale. Subentra la falsa logica del “mi piace” ma anche del sospetto sistematico, che sostituiscono l’analisi e la ricerca dei dati. È un discorso di gruppo che si alimenta di diceria, di “sentito dire”, di gusto per il sensazionalismo. In questo recipiente di sensazioni, più che di cognizioni, il negazionismo può avere facile cittadinanza intellettuale e dignità morale, laddove altrimenti non otterrebbe né l’una né l’alta.

Il 16 ottobre scorso è stato presentato il disegno di legge per l’introduzione del reato di negazionismo in Italia. Cosa ne pensa? Crede che sia necessario uno strumento legale per contrastare questo fenomeno?

Il negazionismo è ripugnante. Punto. Su come combatterlo, invece, ci sono posizioni ed opinioni molteplici. La mia idea è che la soluzione penale, se pensata ad hoc, introducendo una fattispecie giuridica precipua, possa rivelarsi, alla fine, controproducente. I negazionisti amano le luci della ribalta e, in alcuni situazioni, sono alla ricerca, provocando i loro “interlocutori”, del martirio, che nel caso loro potrebbe corrispondere con una qualche forma di sanzione giuridica, nei riguardi della quale presentarsi come i novelli Galileo, prossimo al rogo. La verità storica, nelle società libere e liberali, non è mai di Stato. È il prodotto del confronto politico, della pedagogia civile, della costruzione della cittadinanza. Dopo di che mi rendo conto che il problema di una limitazione dei loro margini operativi si ponga. Sono ripugnanti, per l’appunto. La risposta sta allora nello sviluppare l’antidoto della storia, del gusto per la comprensione ragionevole, e non magica e superstiziosa, del passato. È uno sforzo erculeo. Ma le società libere sono tali proprio perché non danno mai nulla per acquisito. Costruire cittadinanza vuol dire anche questo: comprendere, non giustificare; capire, non indulgere. Ci aspetta un compito immane.

31 maggio 2013

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