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La tragedia di Sumgait

alla Camera dei Deputati

Oggi il console onorario della Repubblica d’Armenia Pietro Kuciukian ha presentato, alla Cameda dei Deputati, il libro da lui curato La tragedia di Sumgait, di Samuel Shahmuradian. Il volume narra la strage del sobborgo industriale di Sumgait, a nord della capitale dell’Azerbaijan Baku, avvenuta nel febbraio 1988. Uomini azeri armati assaltarono i quartieri degli armeni, in uno dei più tristi episodi che portarono alla guerra del 1992 per il Nagorno Karabakh.
L'intervento di Pietro Kuciukian è disponibile nel box approfondimenti.
Di seguito vi proponiamo alcuni stralci della prefazione scritta dallo stesso Kuciukian:


Leggendo le testimonianze riportate in questo libro, ciò che mi ha spinto a riflettere non sono soltanto i fatti terribili che vengono raccontati, ma soprattutto la possibilità di capire come ha inizio la catena del male, come accade che eventi apparentemente trascurabili e sottovalutati possano sfociare in tragedia. (...)

Chi e come avrebbe potuto intuire cosa sarebbe successo tra armeni e azeri negli anni Novanta dopo le prime manifestazioni razziste a Sumgait e i primi segnali di incitamento all’odio?


Il mio interesse per questo libro mi ha sollecitato ad analizzare ciò che avviene in una certa area, in un certo momento, precedentemente allo scatenarsi di un massacro, di un pogrom, di un genocidio. E mi porta a riflettere sull’uso che nella nostra contemporaneità facciamo della memoria storica. Mi porta a riflettere sui silenzi e i vuoti che accompagnano le tragedie del presente. «La memoria» scrive Davide Bidussa «non è un accadimento, è un atto che si compie tra vivi ed è volto a legare tra loro individui al fine di costruire una coscienza pubblica. La memoria ha un valore pragmatico, serve per fare; ci dice oggi che del passato si è trattenuto qualcosa, e che quel qualcosa ha arricchito la nostra capacità di agire...».


È il richiamo alla responsabilità dell’agire, a ogni livello, individuale e pubblico, che nasce dalla lettura di testimonianze cruente come queste, raccolte da Samuel Shahmuradian negli anni Novanta e presentate oggi in traduzione italiana.
Ma è anche il richiamo alla presenza del bene nella tragica catena del male che emerge in questi racconti e che è necessario sottolineare, affinché il lettore ritrovi qualche ragione di speranza nell’umanità, troppo spesso devastata dal dolore.
Nei fatti di Sumgait si è manifestata una concezione punitiva verso persone innocenti: si massacrano persone inermi che vivono a chilometri di distanza dai loro connazionali del Karabagh, solo perché armeni, ritenendoli corresponsabili delle rivendicazioni autonomistiche del Karabagh, anche se non tutti gli armeni avevano manifestato entusiasmo per la richiesta di indipendenza della regione autonoma.


Gli armeni di Sumgait da generazioni vivevano lontani dalla regione che rivendicava la secessione, integrati nel tessuto sociale azero, «compagni» comunisti. Ciononostante sono stati colpiti da una violenza cieca.
Quale è dunque la motivazione reale sottesa a queste esplosioni di violenza? Le testimonianze dei sopravvissuti, che costituiscono la sostanza del libro, potranno fornire al lettore un orientamento nella ricerca delle motivazioni che spingono l’uomo contro l’ uomo nelle maniere più brutali.
Tuttavia, anche se il bene e il male sono fra loro intrecciati, e non è sempre facile riconoscere il male mascherato da nobili intenzioni, esiste qualcosa che supera questo nodo: la verità dei fatti.


In alcune situazioni limite, l’intreccio di bene e male può essere sciolto ed è possibile recuperare il criterio di distinzione considerando le conseguenze di certi atti: il dolore o il non dolore, la distruzione dell’uomo o la sua salvezza. I buoni al tempo del male ci sono stati anche a Sumgait ed è in nome della verità dei fatti che, dentro tanto male, sorge l’imperativo di valorizzare quegli episodi nei quali i non armeni, vale a dire azeri vicini di casa, compagni di scuola, colleghi di lavoro, hanno saputo dire «no». Si tratta di persone che di fronte al dolore dell’altro, alla violenza devastante che si abbatteva sugli armeni innocenti, hanno reagito, si sono opposte, non hanno voltato le spalle. In una parola, non hanno avuto paura.


Vorrei ricordare quelle donne e uomini azeri che hanno aiutato, salvato, soccorso chi stava sprofondando nel dolore: la ragazza azera che ha coperto con uno scialle un’armena che stava per essere bruciata viva e l’ha porta in casa sua, o l’azera Khanum che viene colpita dagli hooligan perché ha osato proteggere l’armena Marina Avanessian; o il giovane Sadraddinov che, disobbedendo al padre, accoglie in casa gli scampati al pogrom. Non sono numerosi i fatti di bene, ma ci sono e costituiscono l’unico punto da cui partire per una possibile ricostituzione dei rapporti di convivenza. 


Tatiana Arutunian, difesa e aiutata per ben due volte, dichiara: «Abbiamo trovato azeri dal cuore grande!». E l’armena M. Rosa aggiunge: «Se non ci fosse stato qualche azero di cuore, nessuno sarebbe sopravvissuto».
Ciò che si evince dalle testimonianze è anche la profonda fiducia dimostrata da alcuni armeni nella legge sovietica e la loro incredulità di fronte agli attacchi dei «compagni comunisti». Chi poteva immaginare che, dopo anni di fratellanza, si potesse riattizzare un odio rimasto silente per così tanto tempo? «Per me il partito, il Komsomol erano cose sacre», dichiara Tatiana Arutu- nian, «ma a Sumgait ho visto che i miei ideali erano stati messi sotto i piedi: le tessere di membro del partito si dovevano comperare, i giovani aderivano alla gioventù comunista solo per ottenere dei privilegi... tutto si comprava e si vendeva a condizione di dargli un prezzo. Perciò io non mi meraviglio che orrori di questo genere si siano verificati qui».
È come se la storia si fosse, di fatto, arrestata agli anni Venti. Un vuoto riempito da settant’anni di un’ideologia fallimentare basata sulla menzogna.


Durante i fatti terribili di Sumgait, tra gli armeni ci sono stati uomini e donne coraggiosi che si sono battuti fino allo stremo per difendere le loro famiglie, i loro figli, i loro genitori. Vissuti per secoli in ambiente islamico, costretti spesso a difendere la propria religione e la propria tradizione, alcuni membri delle famiglie armene sotto attacco sono stati capaci di costringere gli assalitori a un confronto individuale, consapevoli che senza la forza del gruppo, l’assalitore si sarebbe dato alla fuga.


È la forza derivante dalla coscienza del valore di ogni persona, autonoma e responsabile dei propri atti, di contro alla realtà di singoli che ricavano la loro forza dal gruppo, dal fatto di portare avanti la caccia al «diverso» avanzando insieme compatti.
La catena del male è continuata dopo i fatti di Sumgait: pogrom a Kirovabad nel novembre del 1988, a Baku nel gennaio del 1990 e infine la guerra tra l’Azerbaigian e il Nagorno Karabagh dal 1992 al 1994. Enormi sofferenze per l’esodo di profughi da entrambe la parti, perdite umane e lacerazioni profonde.


Ci sono stati ancora una volta episodi di «bene» dentro la ca- tena del male che è seguita ai fatti di Sumgait, episodi di cui sono venuto a conoscenza anche personalmente, e tuttavia il carico di sofferenza che i due popoli hanno dovuto sopportare è stato enorme.
Nel 1991, mi sono recato da Tbilisi in Armenia passando attraverso due villaggi azeri in stato di guerra. Superato il confine fra la Georgia e l’Armenia, in cima a una collina, sono stato raggiunto da una decina di contadini che, appena scoperto che parlavo armeno, mi hanno abbracciato calorosamente. Erano armeni di un villaggio armeno dell’Azerbaigian che, subito dopo i fatti di Sumgait, si erano trasferiti in un villaggio dell’Armenia abitato da azeri, Evlu, poco distante dal confine dove mi trovavo in quel momento. Gli azeri nati e cresciuti a Evlu si erano a loro volta trasferiti nel villaggio armeno dell’Azerbaigian. Si era trattato di uno scambio pacifico tra le popolazioni, senza violenza, organizzato da due persone di buona volontà, i maestri di scuola. L’insegnante armeno e il mullah azero erano vissuti insieme per un periodo, cercando di conoscersi e di stabilire un’amicizia, ba- se per operare lo scambio pacifico degli abitanti dei due villaggi. Hanno superato incomprensioni e problemi, vivendo nella stessa casa, e infine armeni e azeri si sono scambiati le abitazioni, distanti fra loro migliaia di chilometri.


Nel 1993 ho incontrato sul lago Sevan una donna povera, molto distinta che mi ha raccontato di essere una profuga di Sumgait: «Avevo nostalgia della mia casa, così ho detto a mia madre, che mi impediva di ritornare, che sarei andata a Mosca per curarmi una febbre che mi tormentava. Da Mosca ho avvertito i miei vicini di casa azeri che sarei andata a trovarli. Sono venuti a prendermi all’aeroporto di Baku, hanno dato cento dollari al poliziotto della dogana perché avevo un nome armeno, mi hanno messo un velo in testa e mi hanno portata a casa loro. Mi hanno ridato tutti i denari e i gioielli che avevo loro consegnato prima di fuggire in Armenia. Quando, nuovamente velata, mi hanno riaccompagnata all’aeroporto, per tornare in Armenia, via Mosca, ho regalato loro il mio gioiello più prezioso. Non ho potuto entrare in casa mia, era occupata da profughi azeri, che non ho avuto il coraggio di incontrare».





17 gennaio 2013

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