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La Turchia a cento anni dal Metz Yeghern

intervista ad Antonio Ferrari

Le parole di papa Francesco che hanno definito quello armeno "il primo genocidio del Novecento", i rapporti di Ankara con Mosca, la partita geopolitica sul riconoscimento del Metz Yeghern e il negoziato sul nucleare. Di tutto questo abbiamo parlato con Antonio Ferrari, editorialista del Corriere della Sera.
Ecco cosa ci ha detto.

Con l’omelia del 12 aprile, papa Francesco ha definito lo sterminio degli armeni avvenuto nel 1915 “il primo genocidio del Novecento”, scatenando l’immediata reazione della Turchia. Fino a che punto si spingeranno tali reazioni, e qual è più in generale la portata delle parole del pontefice?

La Turchia ha un corpo diplomatico molto preparato, e sono sicuro che da Ankara giungerà una valutazione più attenta e meno emotiva di quella che ha seguito le dichiarazioni del papa.Le parole di Francesco sono parole molto importanti, soprattutto per il momento storico che stiamo vivendo, in cui i cristiani di molte aree del mondo come il Medio Oriente o il Nord Africa sono sottoposti a un martirio. Gli armeni sono cristiani e quindi il centesimo anniversario del genocidio ha portato il pontefice a utilizzare questa espressione.Il papa ha una forte autorità e un grande seguito, e l’immediata reazione della Turchia alle sue dichiarazioni è legata soprattutto a questo e alla concomitanza di tale discorso con l’anniversario del 24 aprile. Possiamo girare intorno alle parole, alla terminologia, distinguere tra genocidio, massacro sistematico o sterminio, ma è chiaro che la sostanza non cambia. Il massacro del 1915 veniva “legittimato” da parte dei Giovani Turchi con l’accusa agli armeni di aver preso parte alla guerra al fianco della Russia - il più grande nemico della Turchia, alleata con la Germania -, attraverso piccole divisioni inquadrate nelle Forze armate di Mosca. Questo tuttavia non giustifica lo sterminio di un popolo, che ha causato oltre un milioni di morti ed è stato condotto con un metodo genocidario.

Il presidente russo Vladimir Putin ha confermato la sua presenza alle celebrazioni del centenario del genocidio a Yerevan il prossimo 24 aprile, mentre nella stessa data il suo omonimo turco Erdogan ha organizzato una cerimonia parallela per ricordare la battaglia di Gallipoli. Quale ruolo gioca la questione armena nei rapporti con Mosca?

Le relazioni con la Russia non sono quelle del 1915 e, come ha ricordato il presidente Sargsyan, l’Armenia attuale si trova a cavallo tra Eurasia e Unione Europea. Certo, i legami economici tra Yerevan e Mosca sono continuati anche dopo l’indipendenza, e per questo in molti Paesi gli armeni vengono percepiti anche oggi come “amici dei russi”. Per quanto riguarda il rapporto con Ankara, occorre ricordare che un certo riavvicinamento tra i leader turchi e armeni è avvenuto. Quello che occorre ora è che tale passaggio venga accettato dai popoli, e questo è più complicato. Penso ad esempio alle relazioni tra Grecia e Turchia, oggi abbastanza distese: far capire all’opinione pubblica l’importanza di tale rapporto non è stato per niente facile, ci sono ancora delle resistenze e ci vorrà tempo per completare tale percorso. Anche l’invito di Sargsyan a Gallipoli proprio il 24 aprile ha questa doppia e provocatoria valenza. È ovvio tuttavia che il presidente armeno sarà a Yerevan in quella data, per commemorare il centesimo anniversario del genocidio. Tutto questo deve far riflettere. L’Armenia infatti - anche alla luce delle dichiarazioni del papa - potrebbe essere un altro ponte, tra Unione Europea e Russia, funzionale a Mosca per uscire da quell’imbuto di sanzioni e contestazioni che hanno seguito l’annessione di fatto della Crimea. Ecco perché il passaggio è estremamente delicato.

Quanto e in che senso si può parlare di “partita geopolitica” in riferimento al riconoscimento del genocidio armeno?

Quella sul genocidio è assolutamente una partita geopolitica, anche se la Turchia sa che prima o poi dovrà accettare il riconoscimento. D’altra parte, questa è una carta che Ankara vuole giocare, e che altri in passato hanno utilizzato. La questione armena è servita, nel tempo, sia alla parte filo-turca sia a quella anti-turca, per difendere le rispettive posizioni. Dal punto di vista geostrategico, e quindi geopolitico, credo che, se si vuole pensare anche a costruire un rapporto diverso con la Russia, l’Armenia potrà contribuire a questo mosaico di relazioni, fondamentale per poter affrontare le sfide del futuro.

In questo contesto, quanto si può rinunciare alla realpolitik di fronte a una memoria negata?

Io continuo a pensare che ci sono gli interessi, le relazioni economiche, le convenienze politiche, e poi ci sono i valori. E credo che queste componenti si ritrovino insieme molto raramente. Il silenzio di molti Stati sulla questione armena mi colpisce, perché è invece giusto che se ne parli, ma nello stesso tempo non mi stupisce, perché so benissimo che tale silenzio è dovuto alla volontà di non urtare suscettibilità e interessi. Pensiamo solo all’Italia, che ha quasi mille aziende presenti in Turchia e forti interessi commerciali con il Paese. Temo quindi che non vivremo mai in un mondo senza realpolitik; certo, sarebbe bello immaginarne l’esistenza, ma è cosa per sognatori, e forse anche un po’ ingenui.

Dopo la sospensione del percorso di avvicinamento di Ankara all’Unione Europea, oggi la Turchia guarda verso Oriente. Come sono cambiati gli equilibri, in particolar modo nei confronti di due attori centrali della regione, Arabia Saudita e Iran, alla luce anche della crisi in Yemen e del negoziato per il nucleare?

Non so come finirà questa vicenda, ma sono convinto che entro quest’anno avremo delle risposte, a cominciare dalla lotta di potere interna al partito di governo turco AKP, tra il primo ministro Davutoglu e il presidente Erdogan.
La Turchia è un Paese sunnita che ospita una robusta minoranza di aleviti, fratelli degli alawiti siriani e quindi sciiti, e questo crea un certo condizionamento. Di conseguenza è chiaro il forte legame di Ankara con l’Arabia Saudita - non dimentichiamo i grandi investimenti di Riyad in Turchia. D’altra parte Erdogan non può dimenticare la sua minoranza, e per ragioni di realpolitik non può dimenticare neanche i suoi rapporti con l’Iran. E il fatto che il presidente turco si sia recato a Teheran subito dopo l’accordo sul nucleare iraniano ha ribadito la volontà di Erdogan di guardare con attenzione a tutti gli equilibri della regione e di mitigare alcuni eccessi, come il rapporto borderline che la Turchia ha dimostrato in passato persino con i nemici numero uno della democrazia internazionale, ovvero i tagliatole dell’Isis.

Martina Landi, Responsabile del coordinamento Gariwo

21 aprile 2015

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