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Il Giusto nel pensiero khmer

In occasione del 39esimo anniversario del genocidio in Cambogia pubblichiamo l'intervento che Claire Ly ha tenuto al convegno "Giusti dell'Umanità" il 3 marzo 2014 alla Camera dei Deputati.

È per me un onore parlare della nozione di giusto nel pensiero khmer. 
La Cambogia, il mio Paese d’origine, è stato segnato profondamente dallo sterminio di massa inflitto alla popolazione dai Khmer Rossi. Questa tragedia ha avuto un costo umano elevato: tra il 1975 e il 1979 in Cambogia ci sono stati quasi due milioni di vittime, vale a dire un quarto della popolazione. Tra le persone uccise senza neanche un atto formale d’accusa ci sono mio padre, mio fratello e i miei due fratelli. Il Tribunale Penale Internazionale, noto con il nome di Camere Straordinarie in seno ai Tribunali Cambogiani, è attualmente in funzione a Phnom-Penh per giudicare gli ex Khmer Rossi responsabili dei crimini contro l’umanità.

La Cambogia è anche un Paese la cui popolazione è al 90% buddhista. Il buddhismo qui è religione di Stato e ha segnato profondamente la cultura khmer. I buddhisti khmer qualificano la propria religione come «Via di Mezzo». Tale qualificazione si spiega con la quarta nobile verità del buddhismo. Le quattro nobili verità costituiscono il discorso su cui si fonda il buddhismo. Nella quarta nobile verità, il Buddha indica la via da intraprendere per liberarsi dell’insoddisfazione esistenziale che abita ogni essere umano. Questa via di liberazione è nota come «nobile ottuplo cammino» e comprende gli otto cammini che ogni buddista deve sforzarsi di seguire: la parola giusta, l’azione giusta, il mezzo giusto per condurre l’esistenza, lo sforzo giusto, l’attenzione giusta, la concentrazione giusta, la comprensione giusta, il pensiero giusto. 

Certamente il saggio buddhista è colui che arriva fino al pensiero giusto, l’ottavo cammino, cosa che richiede anni di pazienti sforzi e di pratica! Per contro, qualunque essere umano può cominciare dai primi tre cammini. Non si tratta di programmi grandiosi che mirano a un cambiamento radicale, ma piuttosto di piccoli gesti alla portata di ciascuno nel proprio quotidiano. Una parola giusta, un’azione giusta, possono passare del tutto inosservate, ma possono talvolta salvare la vita a qualcuno.

Vorrei raccontare un episodio vissuto per illustrare l’azione giusta. 
Dal 1975 al 1977, nella vita durissima nel campo di lavoro dei Khmer Rossi, ho potuto beneficiare della benevolenza della moglie del Presidente della «collettivizzazione forzata», di nome Mâm. È grazie a lei che ho potuto nascondere la mia identità di intellettuale, perché i Khmer Rossi cercavano di eliminare gli intellettuali, definiti «popolo impuro». La signora Mâm mi diede alloggio in una casa a fianco della sua residenza. Le guardie rosse mi lasciarono tranquille perché pensavano che fossi sorvegliata proprio dalla Presidenza. Questa signora mi aveva presa sotto la sua protezione grazie a un gesto di mio padre, che aveva conosciuto all’età di 16 anni. Mio padre era un industriale del legno. Aveva l’abitudine di organizzare dei ricevimenti con delle ragazze di piacere. A una di queste feste gli fu concessa la sedicenne vergine Mâm, ma egli non la toccò per via della sua giovane età. Le chiese semplicemente di cantargli delle arie popolari e le diede una mancia significativa. Questa azione giusta di mio padre aveva segnato la ragazza e più tardi, la donna che Mâm è diventata gli ha reso omaggio prendendomi sotto la sua protezione (Tornata dall’Inferno, pagina 76).

Ho potuto constatare che certi esseri umani hanno compiuto atti giusti senza porsi domande. Un giusto è come la rosa descritta dal Maestro Eckhart, filosofo e mistico renano: «la rosa non ha un perché, fiorisce perché fiorisce; senza desiderio di se stessa, né desiderio di essere vista». A questa immagine della rosa, i saggi asiatici affiancano quella del loto, simbolo atemporale della purezza e dell’elevazione spirituale in tutto il continente asiatico. Il carattere sacro del fiore è legato alla sua bellezza, alla durata dei suoi semi, all’aspetto immacolato delle sue foglie. 
La pianta mette le radici nelle acque putride, ma il suo fiore punta verso il cielo con una bellezza delicata e un profumo discreto. Il fior di loto nel buddhismo simboleggia la trasmutazione che fa sì che dalla bruttezza e dal marciume nasca una delicata purezza. Dal magma del male, il bene può spuntare come il fior di loto che fiorisce sul pelo dell’acqua.

Il frutto del loto è costituito dal ricettacolo floreale a forma di cipolla che conta da 15 a 20 alveoli, ognuno dei quali contiene un seme delle dimensioni di una nocciolina. Questo seme è ricoperto da un pericarpo molto duro e molto resistente all’acqua che gli conferisce anche una longevità record. In Cina, un’équipe di ricercatori è riuscita anche a fare germinare un seme di oltre 1.300 anni, proveniente da un antico lago a Pulantien. Il Giusto è creato a immagine del seme di loto: lo si può ignorare molto a lungo senza che l’effetto del suo atto ne sia alterato.

L’ultima qualità simbolica del loto è legata alla proprietà idrorepellente delle sue foglie. Le gocce non aderiscono quasi alle foglie e scorrono portando via la polvere presente sulla loro superficie. Le foglie di loto sono auto-lavanti. Gli scienziati parlano per questo di «effetto loto» e il carattere sacro del loto è legato anche a questa proprietà delle sue foglie. Un saggio è colui che rimane integro anche in mezzo ai malvagi. Un versetto del sacro testo buddista illustra questo essere del bene che è il discepolo del Buddha:

Come un fior di loto dal dolce profumo, incantevole, 
sorge a volte dai rifiuti lasciati sulla via, 
il discepolo del Buddha emerge dalla polvere del mondo, 
irradiando saggezza al centro della moltitudine cieca.

Nella spiritualità buddhista, il discepolo si allena a esercitare la via del mezzo, gli otto cammini giusti, attraverso la meditazione nella foresta, simbolo di purificazione nella spiritualità del Buddha, come il deserto in quella cristiana. È nella foresta che l’uomo prende coscienza della sua dipendenza dalla natura e apprende ad adattarsi alle condizioni esterne, a se stesso, ai suoi simili. Sotto un albero, il ficus baniano, Buddha ha trovato la verità che libera ogni essere dalla sofferenza. Il ficus baniano con le sue radici aeree simboleggia quindi la conoscenza suprema che ci riscatta dal male. 

La metafora del loto per parlare del discepolo del Buddha rimane molto popolare in Cambogia. È una delle grandi simbologie del pensiero buddhista. In questa metafora, il saggio, figura di Giusto, è visto come un fiore di loto, la cui bellezza è slancio di vita.
Nella cultura khmer, il ficus baniano è l’albero del risveglio, della conoscenza giusta che libera l’essere umano dalla sofferenza. La bellezza di un fiore e l’ombra benevolente di un albero rappresentano quindi delle simbologie importanti della traversata del male. 

Claire Ly, sopravvissuta e testimone del genocidio cambogiano

Analisi di

16 aprile 2014

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