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Impressioni dopo un viaggio in Cambogia

di Salvatore Pennisi

Il paesaggio che ci accoglie al nostro arrivo a Siem Reap, non lontano da Phnom Penh, rispecchia quello depositato nel mio immaginario dalle letture e dai racconti degli amici che hanno visitato il luogo. Nonostante sia la fine di novembre, è un tripudio di fiori, palme e alberi esotici.

Ci accoglie una guida relativamente giovane, Kim, che si rivelerà un infaticabile camminatore. Per i tre giorni in cui ci accompagnerà, Kim manterrà un atteggiamento molto professionale, anche se ammorbidito da una personale tendenza alla battuta ironica e allo scherzo.

Rendendomi conto di essere in un luogo un tempo teatro di un’immane tragedia, sono quasi dispiaciuto di confondermi nella massa di turisti che invade i siti archeologici di Angkor Thom, Angkor Wat o Kbal Spean: superficialmente, l’atmosfera che si respira in questi luoghi è identica a quella dei siti archeologici di qualsiasi altra parte del mondo.

Cerco di approfittare dei “tempi morti” del trasporto in pullman, da un sito all’altro, per fare qualche domanda a Kim sul suo passato. È una persona molto gentile e non si sottrae a quella che potrebbe sembrare una curiosità morbosa di un fastidioso turista, nonostante si sforzi in tutti i modi di mantenere un atteggiamento professionale, vale a dire compassato, per non dire distaccato.

Parto da una domanda da perfetto ignorante su chi sia l’attuale capo del governo cambogiano, con la subdola intenzione – subdola, in quanto alle guide turistiche sarebbe vietato invadere il campo del discorso politico – di far pronunciare il mio interlocutore sull’attuale situazione politica cambogiana. La risposta suscita la mia genuina meraviglia. Il nome dell’attuale presidente del governo cambogiano è Hun Sen, mi dice, un ex Khmer Rosso. Mentre mi dà la risposta, il viso di Kim diventa pensieroso, come se captasse la mia perplessità. “Sono ancora molti gli ex Khmer Rossi rimasti in circolazione”, mi fa presente. È solo in quel momento che mi rendo conto, da occidentale distratto quale sono, che la vita politica cambogiana è tutt’altro che pacificata, o per lo meno non lo è stata per molto tempo dopo il crollo del regime di Pol Pot. Per molti uomini politici attuali è bastato rinnegare, all’ultimo, il proprio coinvolgimento nel regime sanguinario della seconda metà degli anni ’70, per riacquistare una “verginità” politica che consentisse loro di stare ancora oggi nei posti chiave del potere cambogiano. D’altra parte sono legittimati, più che aiutati, dalla tendenza generale alla rimozione collettiva. Si avverte infatti molto forte, per le strade e nel comportamento delle persone, il bisogno di omologarsi alle esigenze di una società consumistica globalizzata; il turismo è, in questo senso, un vettore molto potente di tale tendenza.

Invito Kim a raccontarmi la sua storia personale. Il suo viso muta espressione e diventa triste, nonostante i suoi sforzi di mantenersi distaccato - parla di sé come se narrasse la storia di un suo conoscente. Era ancora un bambino quando i Khmer Rossi costrinsero lui e la sua famiglia ad evacuare da Phom Penh verso la campagna. Venne separato dai suoi genitori e portato in un campo insieme ad altri bambini. Della sua famiglia si salvò solo uno zio che, per non fare scoprire la propria provenienza “borghese”, si era straziato le mani per apparire come un contadino. Dopo la caduta del regime, Kim venne preso in cura da un’associazione che gli permise di studiare le lingue straniere, compresa la lingua italiana, fino a diventare interprete. In questo modo ha potuto trovare facilmente lavoro, anche grazie al grande sviluppo turistico che negli ultimi anni si è verificato in Cambogia.

Quando da Siem Reap ci trasferiamo a Phnom Penh, siamo presi in carico da una seconda guida, una signora di mezza età, Joshi, gentile e compassata. Con lei trascorriamo solo un giorno. Ci accompagna a visitare il palazzo reale della città e si comporta come tutte le guide di questo mondo, con professionalità e distacco. Ci vuole però poco a scoprire che anche lei ha una storia da raccontare, una storia che segnerà la sua intera vita. Nel 1975 era una giovane adolescente. Anche a lei toccò lo stesso destino di Kim: costretta a lavorare come contadina in uno dei tanti campi di lavoro sparsi per la Cambogia, subì la sorte che era riservata alle ragazze sue coetanee. Fu costretta a un matrimonio combinato per volontà dall’Angkar, l’Organizzazione, divinità suprema del movimento rivoluzionario. Le modalità di questo matrimonio mi hanno lasciato esterrefatto. È stato celebrato in una giornata scelta dal partito come giornata dei matrimoni collettivi; il nome di una giovane donna veniva abbinato casualmente a quello di un giovane uomo e i due avevano il dovere di sposarsi per garantire una prole alla rivoluzione. In parte questa procedura rispettava la tradizione del matrimonio combinato tipica, fra le altre, anche della cultura khmer. Estranea alla tradizione era tuttavia la “collettivizzazione” dei matrimoni, la loro celebrazione in un'unica giornata. La tradizione non prevedeva inoltre, come succedeva invece nei campi di prigionia, che venissero inviate delle spie a controllare che il matrimonio fosse effettivamente consumato. “Se la spia, appostata dietro la capanna riservata agli sposi, sentiva litigi o avvertiva dissapori, lo andava a riferire ai capi e il giorno dopo la coppia veniva fatta fuori”.

Joshi è stata fortunata: l’uomo che le è capitato è rimasto con lei tutta la vita e le ha fatto partorire quattro figli, di cui due oggi vivono in Europa, a Londra e Parigi. “Fortunata” è però un termine relativo: tutta la sua famiglia di origine è stata sterminata; lei stessa si porta dentro traumi di cui si intuisce il peso. Tocca a lei accompagnarci al vecchio liceo di Tuol Sleng, trasformato dai Khmer Rossi in luogo di tortura e di morte, quello che essi chiamarono “Ufficio di Sicurezza 21” e attualmente trasformato in Museo del genocidio. Al momento di scendere dal pullman, Joshi ci fornisce le ultime indicazioni per la visita. Lei non ci accompagnerà.

Quando vedo gli strumenti di tortura, le nude reti da letto su cui venivano incatenati i prigionieri per essere torturati, le fotografie degli agonizzanti e quelle dei carnefici, l’orrore che tuttora aleggia nelle stanze squallide, allora capisco il motivo per cui alla nostra guida è mancata la forza di varcare quella soglia.

Salvatore Pennisi, Commissione educazione Gariwo

14 aprile 2015

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