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Ricordare e testimoniare il bene

di Bovannrith Tho Nguon

Cercate l’Angkar – Il libro di Nguon

Cercate l’Angkar – Il libro di Nguon

Per parlare del tema “Ricordare e testimoniare il bene”, non posso fare a meno di descrivere la storia recente della Cambogia, una vicenda poco conosciuta e che molti non ricordano.

Il 17 aprile 1975, circa 44 anni fa, i Khmer Rossi entrarono vittoriosi nella capitale cambogiana, Phnom Penh, contro il regime di Lon Nol appoggiato dagli Stati Uniti d’America. I Khmer Rossi erano rivoluzionari di stampo comunista. Il termine Khmer Rossi, cambogiani comunisti, era stato coniato dal Principe Sihanouk che aveva dominato la scena politica khmer dall’indipendenza al protettorato francese fino al colpo di stato di Lon Nol. Nel giro di poche ore dalla loro conquista di Phnom Penh, i Khmer Rossi costrinsero la popolazione a lasciare la capitale. Dai megafoni, in tono minaccioso, i soldati Khmer Rossi intimavano l’uscita tempestiva dalla capitale: il pericolo di bombardamenti da parte degli Americani era imminente ma tutti saremmo potuti ritornare nelle nostre case dopo poche settimane. Tutti quanti, ingenuamente, lo credevamo ed io, che avevo tredici anni, pensavo solamente che mi sarei preso una piccola vacanza dalla scuola.

La mia famiglia ed io avevamo deciso, portando con noi poche cose, di andare verso il villaggio dei miei nonni, che si trova a sud della capitale. La strada era bloccata e fu necessario cambiare direzione, percorrendo una parallela del fiume Mekong. Solo dopo parecchi giorni riuscimmo ad arrivare al villaggio dei nonni con una barca. Il viaggio a piedi era molto faticoso. L’evacuazione della popolazione dalla capitale fu una delle migrazioni forzate della storia recente. Gli ospedali furono svuotati: molti malati morirono. Ho saputo poi che la capitale Phnom Penh diventò una città fantasma durante il regime dei Khmer Rossi che durò 4 anni, dal 1975 al 1979, anno in cui la Cambogia fu invasa dai Vietnamiti.

In quei quattro anni la Cambogia diventò un campo di lavoro a cielo aperto, una sorta di insieme di cooperative rurali. Tutti i cambogiani erano costretti a diventare contadini. Per i Khmer Rossi l’unico tipo di società “pura” era quella contadina e che si doveva iniziare proprio da lì. Furono abolite scuole, uffici e ospedali attivi durante il passato regime. Il lavoro nei campi era massacrante e poteva durare anche più di 12 ore per solo 2 ciotole di brodaglia di riso, una a pranzo e una a cena. Tutti soffrivamo la fame tremendamente. Il regime, ovvero il direttivo del partito, l’Angkar, voleva creare una società nuova utilizzando l’ideologia comunista. Per la Cambogia iniziò l’anno zero. Per realizzare l’obbiettivo bisognava distruggere la struttura della vecchia società cambogiana, la famiglia stessa doveva essere smembrata.

I ragazzi venivano separati dalle famiglie perché solo l’Angkar possedeva il metodo educativo ideale. La vita privata degli affetti famigliari era molto dura. Nonostante la Cambogia fosse considerata un Paese ricco e florido, eravamo ridotti alla fame. Non avevamo la possibilità di acquistare cibo perché il denaro era stato abolito. In seguito ho saputo che era stata fatta saltare addirittura la Banca nazionale della Cambogia. La vita sotto l’Angkar valeva poco o niente e la paura era diffusa fra di noi. Nessuno si fidava dell’altro. Erano stati uccisi tanti intellettuali, professionisti come medici e ingegneri: l’Angkar voleva ricominciare da zero. Seppi che erano stati uccisi molti militari del regime precedente di Lon Nol. Mio padre, che era militare, non si era fidato a consegnarsi al regime dei Khmer Rossi, aveva cercato di nascondere la sua identità e professione, mentre i Khmer rossi, una volta preso il potere, dissero che l’Angkar aveva bisogno di forza lavoro per l’apparato militare. Nonostante questo tentativo di sfuggire al regime, il destino fu lo stesso crudele per mio padre: morì di fame alcuni mesi dopo la presa del potere dei Khmer Rossi.

Nel frattempo, io dovetti cambiare il mio nome, dimenticando quello dato dai miei genitori: da Bovannrith diventai Tho, da oro splendente a vaso. Tho (vaso) era un nome considerato umile e molto usato dai contadini, grazie a questo mi salvai la vita. Molte persone di alta estrazione sociale furono infatti uccise: nobili, ufficiali dell’esercito, professori universitari. Chi portava gli occhiali veniva arrestato perché associato a un alto grado d'istruzione. La mia famiglia apparteneva alla piccola borghesia benestante. Mio padre era un ufficiale dell’esercito, ma non ricordo se fosse tenente o capitano. 

Il primo nemico dei Khmer Rossi erano i luoghi di culto, di qualunque fede. Il culto praticato dalla maggioranza dei cambogiani era ed è il buddismo: i monaci buddisti non erano risparmiati dall’Angkar folle e crudele. Ebbi modo di vedere con i miei occhi, durante la mia permanenza di lavoro a Vat Ek di Battambang, persone incatenate all’interno della Pagoda buddista. Vidi di sfuggita, passandoci vicino, un soldato Khmer Rosso scrivere su un librone mentre interrogava il prigioniero. Abitavo di fianco alla Pagoda e sentivo le urla dei prigionieri torturati mentre venivano interrogati per poi essere condotti alla vicina piantagione di arance per essere uccisi.

Quando arrivai la prima volta alla pagoda di Vat Ek avevo visto stese a seccare delle cistifellee. Come sapevo che erano cistifellee? Mio padre era appassionato di lotta dei galli. A casa mia avevamo un piccolo allevamento di galli da combattimento. Quelli che reputavamo non adatti al combattimento li mangiavamo ed io, spesso, ero addetto a togliere le interiora. Conoscevo bene quindi la cistifellea. Mi chiesi a cosa servivano messe lì ad essiccare, la risposta la ottenni pochi giorni dopo. Una sera dalla pagoda fu prelevato un prigioniero, lo portarono nella piantagione di arance, lo sventrarono con un’ascia e gli tolsero la cistifellea. Poco dopo il prigioniero morì dissanguato. Nella loro follia regressiva, i Khmer Rossi della foresta avevano portato in auge una credenza contadina che attribuiva alla cistifellea, strappata a persone ancora vive, essiccata ed ingerita grattugiata a piccole dosi, il potere di curare qualsiasi malattia. Per questa ragione molti prigionieri, prima di essere uccisi, venivano sventrati: la cistifellea di un cadavere non aveva alcuna efficacia per loro. In quei 4 anni persi molti membri della mia famiglia: i miei genitori e 2 fratelli erano morti di fame; un fratello non so dove sia finito, lo avevo portato in una specie di orfanotrofio, un luogo dove gli veniva dato cibo adeguato. Seppi in seguito che fu preso in affidamento da un’ infermiera. Io, in quei quattro ebbi una salute molto cagionevole: avevo attacchi di febbre malarica ed edema da fame. Pensavo che non sarei riuscito a sopravvivere. 

Nel 1979, arrivarono i soldati vietnamiti in Cambogia. Decisi di fuggire seguendo un gruppo di compagni di lavoro per affrontare un viaggio che durava molti giorni per raggiugere la Thailandia. Dopo un periodo di attesa vicino al confine, ebbi la possibilità di essere trasferito in uno dei campi profughi sparsi lungo il confine Thailandese. Non ho mai incontrato “I Giusti” sulla strada della mia vita, ma ho incontrato tante persone che in qualche modo mi hanno dato molto, con la loro generosità e umanità. Ricordo, a questo proposito, un soldato Khmer Rosso. Fui colpito da una violenta dissenteria, un’infezione batterica che sfalda la mucosa intestinale. Mi curavano con delle pillole di medicina tradizionale fatte con corteccia d’albero e, supponevo, impastate con farina: un sapore orribile e disgustoso. Soffrivo lancinanti dolori e defecavo molte volte al giorno pezzi di mucosa intestinale con una gran quantità di sangue. Non c’erano latrine e m’appartavo tra gli alberi. Il soldato Khmer Rosso mi vide, stavo male e pensavo che mi avrebbe ucciso. Invece fu molto gentile. Si accorse della mia malattia e mi promise che mi avrebbe portato una medicina. Qualche giorno dopo mi portò una confezione di antibiotico vero, come quello che vendono in una moderna farmacia. Tre giorni dopo guarii. Ero felice.

Una persona a cui sono molto legato e a cui devo molto, perché mi diede la possibilità di arrivare in Italia a rifarmi una nuova vita, fu la dottoressa italiana Sandra Scrimali. La conobbi a Mairut, un campo profughi situato al confine della Thailandia e vicino al mare. Era di Pisa ed era venuta in Thailandi tramite la CARITAS, appena dopo essersi laureata in Medicina. La conobbi facendo l’interprete. La dottoressa Scrimali prese a cuore la mia richiesta di uscire dal campo profughi: eravamo tutti alla ricerca di qualcuno che ci aiutasse ad emigrare. Mi disse che mi avrebbe aiutato a studiare e a imparare un mestiere, una volta giunto in Italia. Io ne fui felice ed accettai la proposta. Scrissi allo zio, che in quel periodo riuscì ad arrivare in America,  e gli chiesi di dirmi la sua opinione. Mi rispose che era favorevole e che lo avrebbe comunicato anche alla dottoressa Scrimali. Arrivai in Italia nel 1980, dopo avere trascorso quasi un anno in diversi campi profughi.

Nel 1984, lasciai la famiglia della dottoressa Scrimali, che non poteva più ospitarmi, poiché suo padre era molto malato. Grazie ad un amico, conobbi don Severino Dianich che a quel tempo era parroco di Caprona, un paesino vicino a Pisa. Avevamo un destino comune: egli era un profugo di Fiume ed io un profugo della Cambogia. Appena don Severino seppe che non potevo più essere ospitato presso la famiglia Scrimali si offrì di aiutarmi, accogliendomi nella casa parrocchiale di Caprona. Vissi con lui quasi undici anni e fu uno dei periodi più felici della mia vita: la casa dove abitavamo è circondata da campi verdi e coltivazioni; a pochi metri di distanza scorre il fiume Arno e di fronte vi è la chiesa romanica dedicata a Santa Giulia, in lontananza si apre il suggestivo scenario del monte Serra. Don Severino è stato per me come un padre e ha influito in modo determinante sulla mia formazione. Col suo aiuto economico, e con quello di altri generosi parrocchiani, continuai a studiare all’università e si avverò il vaticinio di quella donna che avevo incontrato nel campo profughi: diventai un medico.

Infine, ricordo i miei genitori, grazie anche al loro esempio, sono riuscito a superare il trauma avvenuto nella mia adolescenza durante il regime dei Khmer Rossi. Vissi con loro un’infanzia felice e piena d’affetto. Mio papà era molto attento e previdente; fece di tutto perché potessi avere una buona istruzione e soprattutto imparare bene la lingua inglese. La conoscenza dell'inglese mi facilitò nel trovare “una strada di salvezza”: arrivare in Italia e poter studiare fino a diventare un medico.

La casa editrice Jaca Book di Milano ha pubblicato, a Gennaio 2019, una nuova edizione, collana Storia, del libro Cercate l’Angkar – Il terrore dei Khmer Rossi raccontato da un sopravvissuto cambogiano. Il libro è nato dal mio incontro con l’amico Diego Siragusa che è riuscito a raccontare la mia storia.

Bovannrith Tho Nguon

Analisi di

18 marzo 2019

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