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Continuano le atrocità contro i Rohingya

La minoranza etnica dimenticata dai diritti umani.

Dopo l'Angelus in Piazza San Pietro del 27 agosto 2017, il Papa ha espresso la sua vicinanza ai “nostri fratelli Rohingya”, il gruppo etnico del Myanmar discriminato e spogliato dei propri diritti. “Tutti noi chiediamo al Signore di salvarli e spingere uomini e donne di buona volontà in loro aiuto”, così ha dichiarato il pontefice.

Ma chi sono i Rohingya?  E come si sta agendo nei loro confronti?

I Rohingya sono una delle minoranze più perseguitate al mondo. Di etnia musulmana, la loro lingua è il rohingya, una lingua indoeuropea del ramo delle indoariane. Hanno un’origine molto discussa: alcuni li ritengono indigeni dello Stato di Rakhine (noto anche come Arakan o Rohang in lingua Rohingya) in Birmania, mentre altri sostengono che siano immigrati musulmani originari del Bangladesh che si sarebbero spostati in Birmania durante il periodo del dominio britannico. Questo popolo è a tutti gli effetti definibile "senza Stato", poichè non solo non è incluso tra i gruppi etnici ufficialmente riconosciuti in Myanmar, dove sono considerati immigrati illegali, ma anche il Bangladesh non riconosce la loro cittadinanza e non è più in grado di accoglierli. Appartenere all’etnia Rohingya comprende una serie di fortissime discriminazioni e violazioni della libertà individuale: bisogna avere un permesso speciale per sposarsi, viaggiare, cercare lavoro, recarsi dal medico, partecipare ad un funerale; non è garantito il diritto all’istruzione, si è sottoposti alla confisca di beni, a tassazioni discriminanti, al lavoro forzato, a violenze fisiche e psicologiche di ogni tipo. Persino i monaci buddisti hanno un ruolo in questa segregazione: alcuni considerano i Rohingya come una minaccia inquinante per la purezza religiosa buddista, non permettono i matrimoni misti e boicottano i loro negozi, raggiungendo un preoccupante livello d'incitamento all’odio. 

Nel 2012 la questione Rohingya ha catturato l’attenzione internazionale per lo scatenarsi di pesanti scontri e l’inizio di una vera e propria ondata di violenze verso questa minoranza musulmana a seguito dello stupro e uccisione di una giovane donna buddista; sono stati più di 600 i morti e migliaia i dispersi, oltre alla distruzione di moltissimi villaggi. Dopo questi avvenimenti la fuga dei Rohingya si è intensificata, raggiungendo l’apice nel 2015, quando circa 25mila profughi hanno lasciato il Golfo del Bengala, dando il via a una vera e propria emergenza migranti aggravata dall’atteggiamento di chiusura dei Paesi limitrofi.

Attualmente sono circa un milione i Rohingya che vivono in Myanmar, molti sono stati relegati in ghetti o sono fuggiti in campi profughi in Bangladesh e nell’area di confine con la Thailandia. Oltre 150 000 sono quelli bloccati in campi per sfollati, anche perché le autorità hanno proibito loro di lasciarli.

Da tre mesi e mezzo, inoltre, nel nord dello stato del Rakhine sono sottoposti a una feroce repressione militare. Molti sostengono che i birmani stiano compiendo un atto di pulizia etnica o un vero e proprio genocidio, ma l’esercito birmano e della consigliera Aung San Suu kyi – Premio Nobel per la pace nel 1991 – respingono le accuse, definendo quanto accade come un’azione antiterroristica volta a catturare i militanti Rohingya che hanno attaccato avamposti della polizia.

“The Lady”, così come la consigliera è famosa, sta mostrando un rapporto contradditorio con i media e non accorda interviste. Quando alla BBC è stato concesso di recarsi sui luoghi del conflitto, San Suu kyi ha subito revocato il permesso. L’atteggiamento di molti birmani è quello di definire le denunce degli accadimenti (stupri, corpi di bambini morti per le strade, pile di teschi bruciati) come “just rumors”; ma la tesi non regge l'apparizione di numerosi video e foto pubblicati dai Rohingya stessi, che sono costretti a costruirsi da sé la loro testimonianza a causa dell’assenza di giornalisti e aiuti umanitari. La non condanna da parte di una delle rappresentanti della difesa dei diritti umani - che definisce le polemiche sulla questione un enorme iceberg di disinformazione - e la bizzarra propaganda in atto si trascinano una serie di perplessità. L’affermazione che la stessa San Suu kyi fece in uno dei suoi famosi testi - “Il timore di perdere il potere corrompe chi lo detiene” - sembra ritornare profeticamente oggi, come una prova da superare.

Sotto pressioni internazionali la San Suu kyi ha negli ultimi giorni dato il via a una commissione di indagine sugli abusi in corso (presieduta dal vice-presidente ed ex generale Mynt Swe). L’Indonesia si è posta a capo di un movimento di protesta contro le violenze che si stanno verificando e il presidente turco Erdogan – che nei giorni scorsi ha parlato di “genocidio” – ha chiesto in una telefonata alla consigliera di fermare questa carneficina e ha offerto aiuto al Bangladesh, dove sono diretti la maggior parte dei profughi. Contemporaneamente, il Pakistan ha sollecitato l’intervento dell’Organizzazione della Conferenza islamica e la Malayisia - prima nazione ad avere usato per i Rohingya il termine "genocidio" - ospiterà a metà settembre una sessione del Tribunale Permanente dei Popoli, che si occuperà delle violenze contro le minoranze compiute dal Myanmar. 

In questo gravissimo quadro l'arrivo di soccorsi internazionali è senz’altro fondamentale, come risulta particolarmente evidente per l'esodo mortale che si sta verificando alla frontiera fra Bangladesh e Myanmar. Come annunciato in un comunicato stampa del 4 Settembre, anche la nave del MOAS, Phoenix, si è spostata dal Mediterraneo - dove continuerà a tenere sotto osservazione le rotte migratorie - al Golfo del Bengala per distribuire aiuti e assistere le persone che sono state colpite dalle violenze. 

La mobilitazione a livello internazionale avrà un ruolo chiave nella gestione di questo "rischio genocidio", anche a fronte del fatto che difficilmente ci sarà trasparenza riguardo a quello che sta succedendo nel northern Rakhine.

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