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Nur, il poeta che dà voce ai rohingya

intervista a cura di Joshua Evangelista

Sono una rosa caduta / Non posso essere colta, non posso essere usata / Sono solo una rosa caduta nel giardino / Le persone vengono qui e camminano sulla mia testa / Sono solo una rosa caduta nel giardino (Nur Sadek)

Nur Sadek ha diciannove anni e vuole fare l'avvocato. "Voglio diventarlo, non sogno di diventarlo". Nell'intervista ci tiene a precisarlo perché "da queste parti non c'è più spazio per i sogni". Nur vive a Cox's Bazar, un porto nel sud del Bangladesh che ospita il più grande campo profughi del mondo. Nur vorrebbe studiare, ma non gli è consentito. E allora scrive poesie e raccoglie le storie degli altri abitanti del suo campo e le racconta sui social.

La scorsa settimana un incendio ha distrutto più di venti negozi all'interno di uno dei mercati del campo profughi, uccidendo almeno tre persone. Si tratta del terzo incendio nel giro di poche settimane, che rende ancora più precaria la condizione del milione di rohingya che popola migliaia di baracche di bambù, teloni e lamiere subito prima del confine con il Myanmar. Da inizio gennaio oltre 45 mila rifugiati hanno perso la propria abitazione a causa degli incendi. Se non è ancora chiara la natura dei fuochi, è evidente che la presenza dei rifugiati rohingya in Bangladesh, in fuga dalle persecuzioni genocidiarie, diventa sempre più scomoda.

Il governo di Dacca ha provato in più modi ad avviare un percorso di rimpatrio verso il Myanmar, ma diversi tentativi sono falliti perché i rohingya si sono rifiutati di andare, temendo ulteriori violenze in un Paese che nega loro i diritti fondamentali, cittadinanza compresa. La situazione è precipitata a febbraio dopo che l'esercito del Myanmar ha organizzato un colpo di stato e ha sostituito il governo civile eletto in carica dal 2016.

Secondo uno studio del 2018, dall'agosto del 2017 i militari birmani e i locali di etnia rakhine hanno ucciso almeno 25.000 rohingya e perpetrato stupri di gruppo e altre forme di violenza sessuale contro 18.000 donne.

Nur e altri giovani fotografi provano a tenere viva l'attenzione sulle condizioni dei suoi connazionali attraverso racconti per parole e immagini. Visitando le sue pagine social, conosciamo il venditore di betel, il tessitore di reti da pesca, il fabbricante di ceste, il maestro e tanti altri personaggi del campo. A ciascuno di essi Nur prova a restituire dignità attraverso il racconto. 

Per i lettori di Gariwo, si è offerto di fare da guida virtuale nel campo di Cox's bazar. Raccontare la sua storia e quella degli altri rohingya in Bangladesh è per lui l'unico gesto possibile per ribellarsi al silenzio al quale si sente costretto da parte della comunità internazionale.

Quando sei arrivato in Bangladesh?

Sono venuto nel 2017 dal Myanmar, costretto dalle violenze dell’esercito. Si è trattato di un genocidio, non c'è dubbio. Io e la mia famiglia siamo andati via quando abbiamo capito che vivere lì semplicemente non sarebbe stato più possibile. Ci uccidevano, bruciavano le nostre case, prendevano le nostre proprietà. Così siamo fuggiti. Abbiamo superato il confine e siamo giunti in Bangladesh. Non avrei mai pensato di rimanere in un campo profughi per così tanti anni.

Che ne è stato di chi non è fuggito con voi?

La mia famiglia si è salvata ma il mio villaggio è stato distrutto. Ora lì non vive più nessuno, chi si è salvato ha abbandonato il Myanmar. Lì non avevamo l'ansia di sapere se saremmo stati in grado di procurarci il prossimo pasto. Avevamo una bella casa. Qui invece anche le cose più normali sono complicatissime. La vita è davvero dura.

Qual è la tua vita nel campo?

Ho 19 anni, vorrei studiare e invece devo lavorare per dare da mangiare alla mia famiglia. Non sono riuscito a concludere la mia istruzione e mi sento in trappola. Ho l’ansia di non sapere che ne sarà, nel futuro, delle persone a cui voglio bene. Per questo lavoro a testa bassa, scrivo poesie e cerco di informare il mondo attraverso i social media a proposito delle ingiustizie che subisce la mia gente.

Sei ancora giovanissimo. Cosa sogni di fare da grande?

Voglio diventare un avvocato. Così da poter lottare contro il “nostro” governo. Ma adesso non riesco a sognare, non vedo speranze per il mio popolo. Quindi mi limito a impegnarmi per essere in grado di lottare per i nostri diritti. Al momento anche la possibilità di tornare mi sembra impossibile. I militari controllano tutti i poteri e uccidono i manifestanti che partecipano a proteste pacifiche. E allora, mi viene da pensare che se non possiamo sognare di ritornare presto nel nostro Paese, che senso ha sognare? Rispetto a quando ho lasciato il Myanmar sono diventato adulto, ho quasi vent’anni.

Com'è la situazione con i locali?

La relazione non va così male, in assoluto. Ma voglio essere onesto ed evitare la retorica. Dubito che possa durare a lungo. Ci sentiamo degli ospiti che sarebbero dovuti rimanere qualche settimana e che invece si tratterranno a tempo indeterminato. La nostra presenza inizia a pesare e lo capisco. Il Bangladesh è un paese piccolo e molto povero, temo che sempre più persone possano vederci come quelli che mangiano il loro cibo. Non vedo positivamente la convivenza. Questa è la natura umana, non voglio accusarli per questa diffidenza.

Come si sta comportando la comunità internazionale?

La comunità internazionale non si sta prendendo le giuste responsabilità per la nostra condizione. D’accordo, molte organizzazioni e fondazioni sono presenti nei campi e forniscono cibo e medicinali alla popolazione. Ma non credo che le istituzioni internazionali stiano davvero agendo nel modo migliore.

E invece, cosa dovrebbero fare?

Voglio che puniscano il Myanmar il prima possibile e permettano il nostro rientro nel Paese. La situazione è peggiorata vertiginosamente e la comunità internazionale non prende una posizione forte. E quindi non risponde al suo mandato.

Quali sono i problemi principali nel campo?

Ci è impossibile muoverci verso altri posti e ci è impossibile ottenere un’istruzione adeguata. Non è una critica al governo del Bangladesh, è una constatazione. Molti non si sentono al sicuro nei campi e non hanno accesso a una alimentazione adeguata e a cure mediche efficaci. Eppure il racconto che emerge dai report di molte ong è che qui le cose funzionano, che stiamo bene, che abbiamo da mangiare. Premesso che qui tutto è insidioso, non possiamo accettare la rinuncia all’avere accesso all’istruzione. O a pasti nutrienti e acqua potabile.

E poi c'è la grande questione dell'istruzione negata.

Partiamo dal presupposto che non siamo al sicuro. Alcuni locali vogliono mandarci via e distruggere i campi. Dobbiamo trovare un modo per trovare prima possibile una via per tornare a vivere e mantenere la nostra cultura. Anche se il governo non può sostenere il nostro vivere qui, per lo meno dovrebbe permetterci l’accesso all’istruzione. Prendi il mio caso, "privilegiato": lavoro come team leader per l'Organizzazione mondiale per le migrazioni, scatto fotografie e raccolgo le storie delle persone. Ma ribadisco, vorrei tornare a essere un ventenne e fare lo studente.

Cosa ha portato al genocidio?

Nel Myanmar, il nostro Paese, c’è sempre stato un problema di discriminazione religioso. Siamo musulmani in una nazione di buddisti e induisti. Ma il genocidio è iniziato perché volevano prendersi i posti in cui vivevamo. Non saprei dire quando tutto questo odio è iniziato, ma le persone anziane dei nostri villaggi raccontano che siamo sempre stati discriminati.

Come è nata la tua passione per la poesia?

Non ho mai pensato di scrivere poesie. Nel 2017, quando sono arrivato al campo, mi sentivo sporco, come se fossi un rifiuto abbandonato. Vedere così tante persone qui mi ha fatto rendere conto che un grande problema tra la mia gente è che non ha studiato. In Myanmar ci era proibito andare all’università. Io, ad esempio, sono riuscito ad andare al liceo. Come ho già detto sono un privilegiato, perché la mia famiglia era benestante. Eppure la mia istruzione è finita lì. Una volta arrivato qui, ho capito che uno dei problemi principali del popolo rohingya è che non ha voce. Ho capito che avrei dovuto usare la mia voce per gli altri. E ho capito che la poesia è il mezzo migliore per ascoltare il nostro dolore e definirlo nel modo giusto.

Joshua Evangelista, Responsabile comunicazione Gariwo

2 aprile 2021

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