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"Il mio perdono, la mia giustizia".

Kizito Kalima ha scelto di perdonare i perpetratori del genocidio

La copertina del nuovo libro di Kizito Kalima

La copertina del nuovo libro di Kizito Kalima

Da adolescente, Kalima ha perso entrambi i genitori e altri membri della famiglia durante il genocidio contro i Tutsi in Ruanda. Durante il genocidio, è sopravvissuto a una grave ferita alla testa inflitta da un machete e si è nascosto in una palude per oltre un mese. È riuscito a sopravvivere grazie a un uomo che ha rischiato la propria vita per salvare la sua. Kalima è immigrato negli Stati Uniti diversi anni dopo il genocidio, ma ha sofferto ancora di stress post-traumatico grave fino a quando non ha scelto di perdonare i perpetratori del genocidio. Questa decisione gli ha permesso di vivere una vita dedicata ad aiutare gli altri. A questo scopo, Kalima ha fondato il Peace Center for Forgiveness and Reconciliation a Indianapolis, in Indiana.

Cosa pensa che abbia spinto un Hutu a rischiare la propria vita per salvare la sua in un periodo in cui la società insegnava agli Hutu a odiare e uccidere i Tutsi?

I motivi sono tanti. Prima di tutto, l’uomo che mi ha salvato la vita, Aimable Munyaneza, ha vissuto per strada fino all’età di circa 13 anni. Poi mio padre lo ha assunto per svolgere alcuni lavori. Da allora Aimable ha vissuto con noi e mio padre lo ha cresciuto come se fosse suo figlio. Mio padre ha insegnato a entrambi a considerare l’altro come un fratello. In un certo senso, Aimable ha restituito il favore che mio padre gli aveva fatto, ma è anche cristiano e la sua fede religiosa lo ha spinto ad aiutare le persone in difficoltà. Infine, Aimable è coraggioso e altruista per natura. È fatto così.

Il fatto che qualcuno l’abbia salvata ha influenzato la sua vita e il modo in cui tratta gli altri?

Senza dubbio! Ora che ci penso, vedere mio padre essere buono con gli altri può aver creato una sorta di umanità in me. Ritengo che vedere il suo comportamento mi abbia fatto concentrare sull’umanità presente negli altri, a prescindere dalla categoria in cui vengono incasellati. Penso di aver imparato a concentrarmi sull’umanità degli altri sia da mio padre sia da Munyaneza.

Lei parla dell’importanza del perdono e del ruolo che ha avuto nella sua vita. Come ha influenzato la sua vita il perdono dei perpetratori del genocidio del 1994 contro i Tutsi in Ruanda?

Il perdono mi ha permesso di vivere. Dovevo perdonare se volevo vivere, perché l’odio e la rabbia mi stavano uccidendo. Come molti sopravvissuti al genocidio, ho avuto difficoltà persino a sopravvivere per molti anni e posso dirvi che esistere in modalità sopravvivenza non è il modo migliore di vivere. Ho sofferto di ansia, depressione ed emicranie. Ho cercato una serie di soluzioni a questi problemi, come la terapia e lo sport. Ma erano tutte soltanto un sollievo temporaneo, come mettere un cerotto piccolo su una ferita grande. Avrei provato con i farmaci, ma assumere qualsiasi tipo di medicinale mi faceva star male. E nessuna di queste cose mi permetteva di fare altro se non sopravvivere ed era una lotta persino riuscire a farlo. Il perdono è stato diverso. Ha riportato in vita il vero me. Ho iniziato a comportarmi come il vero me, la persona che ero nato per essere. Crescendo, il mio sogno era quello di diventare prete solo perché volevo essere il tipo di persona che avrebbe sacrificato la propria vita per gli altri. Volevo essere il tipo di persona che poteva eliminare gli ostacoli dalla vita degli altri.

So che il concetto di perdono è molto controverso fra i sopravvissuti all’Olocausto. Come hanno reagito gli altri sopravvissuti al genocidio contro i Tutsi in Ruanda alla sua decisione di perdonare i perpetratori di quel genocidio?

Oh, le loro reazioni sono state contrastanti. Alcuni sopravvissuti mi hanno detto che per loro ha funzionato il perdono, ma molti altri, probabilmente la maggioranza, erano contrari all’idea del perdono. Questo si è dimostrato senza dubbio vero quando ho iniziato a parlare di perdono quindici anni fa. Alcuni sopravvissuti dicevano di odiare troppo coloro che avevano ucciso le loro famiglie e i loro amici per poterli mai perdonare. Altri sopravvissuti mi hanno criticato di essere debole e di essermi venduto agli assassini. Alcuni hanno persino fatto intendere che avessi una sorta di malattia mentale che mi faceva avere così paura degli assassini da doverli perdonare nella speranza che non mi uccidessero. A queste persone dico che il vero motivo è che apprezzo i risultati che ha avuto su di me l’atto del perdonare. Il perdono mi ha permesso di vivere una vita normale e produttiva. Col passare del tempo, le persone vedono ciò che ho realizzato nella mia vita grazie al perdono. I risultati del perdono parlano da soli. Tuttavia, sottolineo sempre che non giudico negativamente i sopravvissuti che scelgono di non perdonare gli assassini. Penso che per ogni sopravvissuto esista una soluzione diversa.

Com’è stato ritornare in Ruanda l’anno scorso per la prima volta da poco dopo il genocidio?

Il Ruanda ha davvero superato le mie aspettative in maniera estremamente positiva. Sapevo che il Ruanda era cambiato in venticinque anni, dall’ultima volta che ci ero stato, ma non ero emotivamente preparato a quanto fosse cambiato. Sulla strada dall’aeroporto all’hotel a Kigali, mi sono ritrovato a cercare cadaveri perché ne avevo visti l’ultima volta che ci ero stato. Ma naturalmente non ce n'erano. Poi, la prima notte, quando ho guardato fuori dalla finestra dell’hotel a Kigali, non riuscivo a credere quanto fosse tranquillo. Mi sono chiesto perché non sentissi nessuna sirena o esplosione. A un certo punto ho persino fatto un salto indietro perché mi sono reso conto che la mia sagoma alla finestra era un bersaglio facile per chiunque volesse sparare a un Tutsi. Ma naturalmente, questo non è più un problema nella Kigali di oggi. Kigali è anche la città più pulita che abbia mai visto. La gente sorrideva e quasi tutti avevano un lavoro. Ma la sorpresa più grande è stata la cordialità e la gentilezza delle persone, soprattutto della polizia! So che il Ruanda ha ancora molti problemi, ma sono tornato a essere molto ottimista sulla possibilità di riconciliazione fra persone che hanno avuto conflitti terribili in passato. Il Ruanda di oggi mi ispira ad applicare alle culture occidentali molto di ciò che ho visto in questo Paese. Se la pace e la riconciliazione sono possibili in Ruanda, allora sono possibili ovunque.

Quali sono i suoi progetti futuri?

Voglio portare il mio messaggio di perdono a livello internazionale. A tal fine, sto scrivendo un libro sulla mia vita e terrò più conferenze possibili. La pandemia mi ha costretto a spostare tutti i miei discorsi sui social media, ma questo mi ha permesso di parlare di perdono e di altre soluzioni ai problemi sociali con persone di tutto il mondo. Questo dibattito internazionale è fondamentale perché dobbiamo convivere tutti.

C’è altro che vorrebbe dire ai sostenitori di Gariwo?

Trovare soluzioni attraverso il perdono e la riconciliazione è fondamentale perché dobbiamo convivere tutti. Penso che sia importante ricordare che è positivo essere se stessi e aiutare gli altri. Prima di essere poliziotti, insegnanti o avvocati, siamo persone.

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