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Ruanda, vent’anni dopo

la giustizia dopo il genocidio

Dopo i cento giorni del genocidio in Ruanda, il Paese ha dovuto affrontare il problema della giustizia, in un territorio dove gran parte della popolazione aveva in qualche modo preso parte alle violenze.

A distanza di vent’anni, il rapporto di Human Rights Watch “Justice After Genocide - 20 Years On” fa il punto sui progressi della giustizia, nazionale e internazionale, nella ricerca e nella condanna dei protagonisti dei massacri del 1994.

Come in tutti gli Stati che cercano di rialzarsi dalle macerie di un genocidio, il processo giudiziario ai danni dei carnefici è stato molto complesso. In Ruanda, inoltre, il compito era  reso ancora più difficile dal fatto che la maggior parte degli avvocati e dei giudici tutsi erano morti durante le violenze, e le infrastrutture giuridiche del Paese erano completamente distrutte. Nonostante questo, il governo del Ruanda ha avviato diversi processi contro gli hutu responsabili del genocidio, sia attraverso le corti nazionali che con il sistema dei gacaca.

La giustizia nazionale ruandese ha funzionato a intermittenza. Subito dopo il genocidio, infatti, migliaia di persone sono state arrestate arbitrariamente, e spesso giudicate senza un equo processo. Il governo ha quindi emanato, nel 1996, una nuova legge per regolare i casi legati al genocidio, costituendo il quadro legale entro cui avviare i processi. L’enorme numero di casi ha tuttavia limitato l’efficienza delle corti nazionali, nonostante l’aiuto di organizzazioni internazionali come Avvocati Senza Frontiere.

Per alleggerire il carico di questi tribunali, il governo si è quindi appoggiato ai gacaca, corti interne alle comunità del Paese tradizionalmente utilizzate per risolvere questioni minori. L’obiettivo di questo sistema non era solo quello di fornire giustizia per i crimini commessi, ma anche di favorire un processo di riconciliazione facendo emergere la verità sul genocidio.
I gacaca, composti da giudici eletti dalla popolazione, sono entrati in vigore nel 2002 - anche se i primi processi sono iniziati nel 2005 - e hanno terminato i lavori nel giugno 2012, avendo giudicato quasi due milioni di individui. Questo sistema, se da un lato ha permesso l’alleggerimento delle corti nazionali e ha portato avanti un importante numero di casi, dall’altro ha visto alcune sentenze “viziate” da processi ambigui, al limite dell’equità o addirittura con episodi di intimidazione e corruzione.

L’organo più noto deputato a giudicare i crimini commessi nel 1994 è tuttavia il Tribunale penale internazionale per il Ruanda, creato dalle Nazioni Unite per perseguire i responsabili del genocidio e di altre gravi violazioni del diritto internazionale umanitario commessi nel territorio del Ruanda e da cittadini ruandesi dal 1 gennaio al 31 dicembre 1994. Oggi il Tribunale - che ha ancora 12 sentenze aperte, da chiudere entro la fine del 2014 - ha giudicato 75 individui in 55 casi, con 49 condanne e 14 assoluzioni. Il limite di questa corte, tuttavia, risiede nel suo stesso mandato. Il Tribunale era infatti chiamato a giudicare i maggiori responsabili del genocidio - e in questo ha avuto successo, con processi come quelli ai danni dell’ex primo ministro Jean Kambanda e dell’ex Ministro della Difesa Théoneste Bagosora - e per questo non ha portato a giudizio la maggior parte degli autori materiali delle violenze. Sui risultati del Tribunale pesano poi i suoi alti costi, la lunghezza dei processi e la distanza dal luogo del genocidio (la Corte ha infatti sede ad Arusha, in Tanzania).

Dal 2011, inoltre, il Tribunale penale internazionale ha iniziato a trasferire i casi alle corti nazionali, nonostante la preoccupazione di alcune organizzazioni - come Human Right Watch - per l’effettiva capacità delle corti ruandesi di assicurare equi processi agli imputati.

Diverso poi è il caso, portato alla luce delle cronache internazionali per la condanna a 25 anni di carcere inflitta a Pascal Simbikangwa da una corte francese, dei processi ai carnefici del genocidio ruandese fuggiti all’estero dopo i massacri. In questi vent’anni, infatti, diversi Paesi hanno applicato il principio della giurisdizione universale - che prevede la possibilità per uno Stato di processare un individuo anche se questi non è legato a tale Paese da criteri di nazionalità o di territorialità del reato, in caso di gravi crimini contro l’umanità - per giudicare i responsabili del genocidio in Ruanda nascosti entro i loro confini: tra questi, oltre alla Francia, anche Belgio, Svizzera, Germania, Canada, Finlanzia, Norvegia e Svezia.

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