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​Il primo genocidio del ventunesimo secolo è passato sotto silenzio

Di Simone Zoppellaro

Un tempio yazida nella città di Baadre

Un tempio yazida nella città di Baadre (Foto di Simone Zoppellaro)

Il primo genocidio del ventunesimo secolo è passato sotto silenzio, in larga parte ignorato dalle cancellerie europee e dai media, che si sono limitati a pochi titoli nei giorni più drammatici di questa tragedia, per poi condannare all’oblio le sue vittime. Il risultato, complice anche il fatto che tali eventi sono avvenuti in piena estate - ad agosto, tradizionale tempo di ricreazione e vacanza -, è stata una amnesia generalizzata, frutto non certo di complotti o complicità specifiche, ma dell’arma più potente di cui si sono avvalsi i carnefici in ogni tempo e in ogni luogo: la pura e semplice indifferenza. Il risultato è che il cittadino medio, in Italia come in Europa – e parlo per esperienza personale, occupandomi di questo tema da oltre un anno –, non è venuto neppure a conoscenza delle vicissitudini o dell’esistenza stessa di questa piccola minoranza religiosa, quella yazida, vittima di una violenza sistematica e brutale che mira a cancellarla per sempre dalla faccia della terra.

Un genocidio questo, si badi bene, ancora in corso, come ci racconta anche un’indagine delle Nazioni Unite realizzata ormai un anno e mezzo or sono – le cui raccomandazioni, ancora una volta, sono cadute nel vuoto. Sono tremila le donne yazide ancora in mano ai terroristi, vendute e passate come merce da un miliziano all’altro, vittime di abusi e stupri sistematici, in uno stato di schiavitù dichiarato più volte a chiare lettere dai propagandisti dell’Isis nei loro documenti e nei canali ufficiali di comunicazione. Fra loro anche molte bambine. Eppure, nulla ancora si muove: stipati in campi profughi dove mancano dei beni e dei servizi più elementari, come del supporto psicologico e terapeutico che sarebbe loro non meno necessario, i sopravvissuti di questo genocidio vivono accampati a decine di migliaia in tende e in alloggi di fortuna, privi non solo del passato che è stato loro strappato per sempre, ma anche di un futuro.

Man mano che lo Stato Islamico arretra, vengono scoperte fosse comuni dove i copri straziati di migliaia di civili giacciono senza nome. Agli yazidi, di cui oggi pochi o nessuno si interessa, mancano persino i soldi necessari per poter esaminare i resti di questi cadaveri e le ossa, e dare alle famiglie delle vittime la certezza della morte e il minimo, ma doveroso sollievo, di poter compiangere i loro cari dopo anni di straziante incertezza e di attesa. Il genocidio irrompe in un mondo agricolo impoverito e arcaico, simile a quello narrato da Silone in Fontamara, proprio nel momento stesso in cui la comunità inizia a crescere ed emanciparsi dopo secoli di persecuzioni e vessazioni, complice il rapido ma contraddittorio sviluppo del Kurdistan iracheno dopo la caduta di Saddam Hussein. Ma agli yazidi, che sono gli ultimi degli ultimi, manca un qualsiasi supporto – una chiesa, uno Stato, degli alleati che si spendano per loro – e la loro tragica vicenda precipita così nelle tenebre della storia senza che nessuno abbia il coraggio di tendere loro una mano, neppure a posteriori, per quanto riguarda i sopravvissuti martoriati da lutti, impotenza e rimorsi. Eppure, basterebbe davvero poco, data anche l’esile entità numerica di questa minoranza.

Una comunità, quella yazida, composta infatti da appena alcune centinaia di migliaia di persone, che dall’agosto 2014 è vittima nel nord dell’Iraq, sua patria originaria e dove ha vissuto per un millennio, di un genocidio da parte degli uomini dello Stato Islamico. Un crimine messo in opera con premeditazione e sistematica ferocia, come è possibile evincere dalle numerose prove e testimonianze disponibili, che tenta di cancellare per sempre ogni traccia di questa minoranza, della sua antica cultura e religione, ritenuta – a causa della sua natura sincretistica, altra dall’Islam – non ammissibile per i rigidi dettami religiosi professati dagli estremisti. Gli “adoratori del diavolo”, come sono stati chiamati per secoli in Medio Oriente, sono in realtà i seguaci di una religione pacifica, che non ha mai cercato di fare proseliti, e anzi proibisce nel modo più categorico ogni forma di conversione. Yazidi lo si è soltanto di nascita, e a patto che entrambi i genitori a loro volta lo siano. Un isolamento, questo, che si è rivelato un’arma a doppio taglio, nel tempo del sangue e dell’imminente catastrofe.

Ma torniamo a noi, a quanto ancora può e deve essere fatto. Non servono belle parole o pianti liberatori e ipocriti, ma un’assunzione di responsabilità concreta da parte della società civile e della politica in Italia e in Europa, per ridare un briciolo della dignità perduta a queste vittime dimenticate da tutti, che hanno perso nel giro di pochi giorni i loro villaggi, la loro vita e le loro famiglie. Tante le azioni che possono essere intraprese, piccole o grandi. Serve dare una mano a organizzazioni umanitarie come Yazda, che avrebbe un gran bisogno di donazioni e di volontari che li aiutino nei loro tanti progetti educativi per i bambini, di assistenza per profughi e sfollati, e di supporto psicologico e materiale per le vittime. E serve soprattutto che la politica dia un segno di discontinuità e di coraggio. Dico di coraggio perché mi rendo conto perfettamente che, in un clima avvelenato dalla paura dell’immigrazione e del diverso, parlare di accoglienza può non essere semplice. E tuttavia è disumano e atroce che chi è stato vittima di un genocidio sia considerato alla stregua di un migrante qualsiasi, vedendo passare davanti a sé, in alcuni casi, chi quelle violenze le ha compiute o ha lasciato che avvenissero in piena complicità. Basterebbe, anche su piccola scala, riprodurre esempi di accoglienza già portati avanti, nel caso specifico degli yazidi, da Paesi quali la Germania, il Canada e l’Armenia – se possibile spingendosi, come quest’ultima, anche a un riconoscimento a livello parlamentare di questo genocidio.

Un gesto di solidarietà che sarebbe anche una giusta ricompensa per la grande generosità dimostrata in passato da questa piccola comunità. Un secolo fa infatti Hamu Shiru, un capotribù yazida, nel pieno degli eventi tumultuosi del genocidio armeno, si spese personalmente insieme a tutti i suoi uomini per fornire protezione a quelle masse di disperati in fuga dai loro carnefici, arrivando persino a sfidare le autorità ottomane che intimavano di consegnarli. Cent’anni esatti prima del genocidio yazida, infatti, su quello stesso monte Sinjar teatro dei massacri compiuti dall’Isis quattro anni or sono, trovarono scampo migliaia di uomini e donne, in larga maggioranza armeni, che presso gli yazidi – mentre il mondo guardava altrove, ancora una volta – ebbero ospitalità, terre e lavoro. Ora, perché noi dobbiamo essere da meno? Perché non riusciamo a scuoterci e a reagire, quando atti di tale brutalità e violenza vengono compiuti, ignorando la lezione della Shoah e del nostro stesso passato? Un gesto di umanità, quello che possiamo compiere oggi, che restituirebbe dignità a un popolo spezzato e disperso che rischia di scomparire, ma infine – e Dio solo sa se ne abbiamo bisogno, di questi tempi – anche a noi stessi.

Simone Zoppellaro

Analisi di Simone Zoppellaro, giornalista

12 febbraio 2018

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