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Germania: l'orrore, la colpa e la nuova destra

di Simone Zoppellaro

Frauke Petry

Frauke Petry (picture-alliance/dpa/J. Stratenschulte)

STOCCARDA – Mancano ormai pochi giorni alle elezioni europee e la Germania, che eleggerà più parlamentari di qualsiasi altro Paese dell’Unione, tornerà presto al centro dei riflettori. La ragione prima, assai probabilmente, sarà l’AfD, il partito Alternativa per la Germania, che porterà nel cuore delle istituzioni europee quello che, nelle intenzioni dei suoi stessi rappresentanti, dovrebbe essere un cavallo di Troia capace di stravolgere gli equilibri comunitari. Certo, l’AfD non è sola, ma si troverà in ottima compagnia: dalla compagine spagnola Vox, ai molti partiti della galassia sovranista dell’Europa centro-orientale, fino a Marie Le Pen e alla Lega, è assai prevedibile un’ampia rappresentanza di partiti scettici o apertamente ostili al progetto europeo. Eppure, a ben guardare la Germania di oggi – a discapito di tanti titoli gridati che da anni annunciano la fine di un’era politica e il tramonto definitivo della CDU della Merkel – resiste in modo assai più efficace alle tante serene dell’oblio e del rancore che imperversano oggi da Roma a Budapest, da Varsavia a Vienna, sguaiate e irresponsabili. E con essa, resiste uno dei suoi pilastri fondanti: una memoria senza sconti dei crimini del nazionalsocialismo, che è un asse portante dell’identità tedesca contemporanea.

Non voglio qui certo stendere, sia ben inteso, un panegirico della Germania del dopoguerra. La lettura di Günther Anders, e in particolare di quel capolavoro che è Dopo Holocaust, 1979, edito in Italia da Bollati e Boringhieri, ce lo impedisce in modo categorico. La consapevolezza, sempre parziale e incompleta, della realtà dello sterminio di sei milioni di ebrei – oltre che di Rom e Sinti, gay, testimoni di Geova, oppositori politici e prigionieri di guerra – ha stentato ad affermarsi per oltre tre decenni (36 anni, per l’esattezza, secondo Anders), mentre la società cosiddetta civile, magari bisbigliando nelle cucine e nelle cantine, continuava ad essere segnata da un antisemitismo tutt’altro che sopito, da sogni di rivalsa o da una colpevole (quant’altre mai) indifferenza nutrita dall’euforia consumista. Vivendo in Germania, ho diversi amici – nati fra gli anni sessanta e settanta – che mi hanno raccontato con orrore di essere nati a poche centinaia di metri da un Lager, ma di averne sentito parlare per la prima volta solo passati i vent’anni. Il percorso per superare quella che Anders definisce una vera e propria teologia – quella hitleriana, che ha potuto erigere un suo dio (il Führer) sono nella misura in cui era a tutti presente che esisteva un’incarnazione del diavolo (gli ebrei) – è stato lungo e accidentato. Ma in ogni caso, visto dalla prospettiva attuale almeno, non privo di successi tangibili.

Ricordo un bell’incontro che ho avuto nel 2016 con Jens Rommel, a capo dell’Ufficio centrale per le indagini dei crimini nazionalsocialisti che ha sede a Ludwigsburg. Che mi ha raccontato la sua sfida, ampia e ambiziosa: estendere l’idea di responsabilità per i crimini nazisti fino ai gradi più bassi dell’amministrazione, come una semplice telefonista o un impiegato amministrativo di un campo. Portarli a processo e farli condannare, per il semplice fatto di aver saputo e visto, in modo inequivocabile, e non essersi opposti all’orrore. Una radicalità ammirevole, che sarebbe molto piaciuta ad Anders, anche se nella prassi giudiziaria si è scontrata, inevitabilmente, con la tarda età o la morte di larga parte degli imputati identificati nelle indagini. Ma non è solo Rommel, il cui lavoro è supportato dalla totalità dei Lander federali, a vederla a questo modo. Si moltiplicano le iniziative, qui in Germania, legate alla memoria: Lager semisconosciuti (almeno dalla generazione maledetta che ha vissuto la guerra, per la quale non è pensabile, ritengo, alcuna assoluzione) che vengono aperti al pubblico, insieme a libri, conferenze e iniziative, a tutti i livelli, che si moltiplicano. Qui a Stoccarda, ad esempio, è appena stato adibito a spazio museale il quartier generale della Gestapo cittadina, con un’ampia scelta informativa di documenti sui crimini commessi a livello locale. C’è voglia di storia, e c’è il bisogno di non dimenticare il passato, anche nelle scuole; e infatti proprio alla Cotta-Schule di Stoccarda Gariwo inaugurerà a breve il suo primo Giardino dei Giusti in Germania.

Poi c’è l’AfD, certo, che non andrà trascurata, ma neppure demonizzata in maniera acritica come partito neonazista. Non lo è, e non si può fare loro più grande favore che continuare a gridarlo ai quattro venti. L’AfD, al pari della Lega, del M5S e di tante nuove compagini europee, è un’entità liquida e non afferrabile, in continuo mutamento, fin dalla sua stessa origine. Nulla di più lontano dalla rigida e spietata (e, a suo modo, coerente: quel credo quia absurdum est che, scriveva Nietzsche, è alla base dell’anima tedesca) ideologia nazista. L’AfD, inoltre, a differenza della Lega o del Front National, soffre di un peccato originale che la marginalizza a forza incapace di imporsi oltre certi limiti: una cronica incapacità di trovare l’uomo (o la donna) forte, un leader in grado di entusiasmare e parlare alla pancia del suo inquieto popolo. Un’incapacità tutta tedesca, che si sposa, a mio avviso, a una considerazione più profonda: la Germania non è pronta oggi ad accettare un leader radicale, il suo organismo lo rigetterebbe immediatamente come un corpo estraneo, a partire da una parte non marginale del suo stesso elettorato di destra. La parabola di Frauke Petry, la faccia più nota del partito in questi anni, la dice lunga in proposito: costretta a lasciare perché ritenuta troppo moderata, marginalizzata e scalzata, ma senza che nessuno dei successori riuscisse a imporsi, al pari di lei, per autorità e carisma. Un altro punto di debolezza dell’AfD è la sua incapacità di sfondare, di porsi come forza in grado di governare, al di fuori dei confini dell’ex DDR. Una pecca non da poco, se si pensa come l’affermazione nazionale della Lega parta invece dalla parte più popolosa e ricca del Paese: il Nord. Difficile, dato il dislivello economico, demografico, culturale e politico fra Est e Ovest, immaginare un travaso di egemonia in senso contrario, ad esempio, al caso italiano.

Ora, per quanto molti analisti nostrani, spesso improvvisati, preferiscano vedere la pagliuzza negli occhi del vicino che la trave nel governo italico, gridando al ritorno al nazismo in Germania mentre da noi governano i sodali di CasaPound e damerini a cinque stelle che navigano nei fumi dell’oblio e dell’ignoranza, facendo carriera (in Amazzonia, si intende) a spese del papà fascista dichiarato e orgoglio di famiglia, la battaglia che si apre a Berlino in questi anni è ancora tutta da fare. L’AfD è una forza reale, ma non rappresenta più che l’12% dei votanti, sondaggi alla mano, in una galassia partitica che si schiera compatta a difesa di una memoria che è, assai più che in ogni altri Paese del mondo, collettiva e fondante. Non voglio sottovalutare un allarme che preoccupa prima di tutti i tedeschi. Dentro l’AfD, insieme a miriadi di qualunquisti, c’è di tutto: migranti, una piccola rappresentanza di ebrei di destra, armeni, italiani e russi; poi ci sono antisemiti, certo, nazionalisti della peggior specie e nostalgici del Terzo Reich. Ma questi non contano più di quanto CasaPound conti nella Lega, cioè in modo assai relativo.

Ora, la volontà di oblio nei confronti dei crimini nazisti, tutt’altro che sistematica (basta leggere i documenti del partito, per comprenderlo) non è una tanto una volontà di restaurazione, quanto un processo di vittimizzazione (così riassumibile: perché dobbiamo pagare ancora oggi per i crimini del passato, noi che neppure c’eravamo?), una disperata caccia al complotto (emblematica la retorica sulla Lügenpresse, la stampa menzognera) che è il fenomeno tipico, ieri come oggi, di ogni distorsione storica nazionalistica. La crisi dei migranti che ha scosso la Germania e l’Europa ha fornito ai neonazisti tedeschi l’illusione di poter restaurare il sogno hitleriano, sostituendo il migrante musulmano all’ebreo errante. Ma tutto questo si è rivelato infondato, e ha dimostrato tutta la sua pochezza ideologica proprio nel paradosso, spesso denunciato dai media tedeschi, che la xenofobia imperasse proprio laddove i migranti erano in numeri assai minori (ancora una volta, nell’Est). In quei mesi, la paura è stata tangibile, insieme allo spettro che si profilasse un ritorno al passato. Ma oggi? Riassorbito il colpo, e dopo una piccola virata a destra in senso securitario, la CDU si mantiene solida al centro dell’arena. A preoccuparla, da lontano, non è tanto l’AfD, quanto i Verdi, dati in continua crescita nel Sud popoloso e produttivo. Si tratta dunque a mio avviso, nel caso dell’AfD, di tensioni sterili, pericolose forse (per le possibili metamorfosi che potrebbero occorrere in altri sensi), ma contingenti e senza futuro. Se arriveranno pericoli concerti, arriveranno da altrove, non da questa compagine raffazzonata e confusa. Siamo alla fine della politica, non all’alba di una nuova Germania imperiale. E la memoria dell’Olocausto durerà mille anni, non certo la nostalgia di un Reich che ha ridotto in macerie la Germania e l’Europa.

Che piaccia o meno, Berlino non vacilla, ma dimostra ancora tutta la sua fiducia nel futuro patrio e dell’Europa nella misura in cui non distoglie lo sguardo dall’orrore del passato. Che piaccia o meno a tanti italiani malati di Schadenfreude, che non aspettano altro che di gridare al ritorno della Germania nazista, il futuro del sogno europeo oggi vive e si determina a Berlino, non in una Roma sempre più lontana da ogni peso politico internazionale. La realtà, piaccia o meno, è che per noi italiani che sarebbe assai meglio guardarsi allo specchio, una volta per tutte, e assumerci le nostre responsabilità sul nostro passato e sul nostro futuro (che le due cose vanno insieme), anziché sperare in una caduta, quella della Germania, che determinerebbe la nostra fine, non solo in termini culturali e politici, ma anche economici.

Simone Zoppellaro

Analisi di Simone Zoppellaro, giornalista

21 maggio 2019

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