La sala delle conferenze della
Biblioteca Nazionale di San Pietroburgo è affollata come non mai da una umanità
sofferta, ma felice, terribilmente stanca, eppure determinata a non far
trapelare cedimenti: si distinguono intellettuali e contadini, persone molto
avanti negli anni, spesso sorrette da nipotine, e giovani visibilmente
determinati a porre fine agli enormi buchi di memoria lasciati da una tragedia
che, troppo spesso, il mondo tenta
di rimuovere dalla coscienza lavandosene le mani.
Al centro del piccolo
palcoscenico una sedia di legno con due bracciali che contengono, allineati con
cura meticolosa, dieci volumi della monumentale opera Leningradskij
Martirolog (Martirologio di Leningrado). Sul bordo del palcoscenico una
catasta di libri dell’undicesimo volume, quello che “restituisce alla memoria”
i nomi di 5.220 persone che erano state stritolate, nei mesi di ottobre e
novembre del 1938, tra gli ingranaggi della mostruosa macchina del terrore
costruita insieme al primo Stato dei Soviet.
Sotto il palcoscenico, come per
mantenere un contatto fisico con quelli che chiama “i veri autori del libro”
(familiari, amici e parenti delle vittime), Anatoli Razumov, presidente del
“Centro Nomi Ritrovati”, racconta e ricostruisce le storie, passa il microfono ai
testimoni, regala a tutti gli intervenuti una copia dell’ultima fatica che,
sottolinea con malinconia Anatoli, “purtroppo sarà seguita da altri volumi e
quindi, da altri anni di lavoro. A patto che la salute lo permetta”. La
montagna di libri si assottiglia, l’atmosfera si fa pesante, le ricostruzioni
dei drammi personali spesso si interrompono perché cominciano a mancare
addirittura le parole. Altre volte la commozione mette a dura prova le corde
vocali. Nonostante ciò dalla platea non esplodono mai lampi di odio, non
scaturiscono frasi o gesti inconsulti.
Contro il terrore di Stalin anche i "Giusti" di Gariwo
La memoria è un gesto d’amore
verso le vittime innocenti e “non deve essere mai spunto di odio contro gli
sciagurati artefici dei crimini di massa”. Oltre quindici anni di lavoro senza
sosta, in un’angusta stanza della Biblioteca Nazionale di San Pietroburgo, a
contatto con diecine di migliaia di famiglie sparse in un territorio che si
affaccia su due continenti, che abbraccia 11 fusi orari. Per tutti gli
intervenuti un gesto di ringraziamento, a tutti viene donato un crisantemo
giallo. Prima di concludere l’appello Anatoli dona un libro al Console Generale
polacco di San Pietroburgo, che annuncia la creazione di un’associazione
Memorial per la ricerca di tutte le vittime polacche in Urss nel periodo del terrore
staliniano, e ad un rappresentante del clero polacco, “per rendere in questo
modo omaggio alle vittime cattoliche nella metropoli baltica”. San Pietroburgo,
la “Capitale degli Zar”, era e rimane la città più multietnica della Russia.
Anatoli Razumov ha chiamato anche
chi scrive e, nel donare il volume, ha ricordato il lavoro di Gariwo, il suo
impegno nel “ritrovare i nomi” degli italiani dispersi in Urss. Anatoli ha
colto l’occasione per spiegare ad un pubblico attento, talvolta sorpreso, in
che cosa consiste “la straordinaria iniziativa dei “Giardini dei Giusti””.
Sei pagine di statistiche
L’undicesimo volume, 800 pagine
piene di nomi e cifre, termina, come tutti gli altri, con 6 pagine di
statistiche che, pur nella freddezza dei numeri, testimoniano una tragedia
della quale resta estremamente difficile trovare le parole più giuste per
descriverla. In soli due mesi sono state trucidare 5.220 persone (4.928 uomini
e 292 donne), delle quali: 0,1% sotto 20 anni; 12,8% tra 20 e 29 anni; 28,8%
tra 30 e 39 anni; 30,8% tra 40 e 49 anni; 20,2% 7,3%. Il più giovane: 18 anni
(uomo), 22 anni (donna). Il più vecchio: 81 anni (uomo), 66 anni (donna).
I nati a Leningrado costituivano solo il 4,8% degli uomini
ed il 9,6% delle donne. La maggioranza provenivano dalla regione di Leningrado,
il 47,1% delle donne e il 24% delle donne, nonché dall’Asia Centrale, il 24%
degli uomini ed il 39,4% delle donne. Nella graduatoria delle nazionalità i
Russi (17,4%) sono al terzo posto dopo Estoni (29,6/) e Finlandesi (17,9%).
Seguono Lettoni (9,1%), Polacchi (7,8%), tedeschi (6,1%), Careli (2,9%), Ebrei
(1,7%), Bielorussi, Lituani, Assiri, Armeni, Ucraini, Ungheresi, Austriaci,
Greci, Cinesi, Svedesi, Bulgari, Turchi, Coreani, Cechi, Croati ed anche una
Inglese, una Italiana ed una Cecoslovacca. Di 9 persone (8 uomini ed una donna)
non si è potuto accertare le generalità. Da queste cifre emerge con estrema
chiarezza come il terrore rosso si sia abbattuto soprattutto sulle minoranze
razziali e, in misura molto minore, sugli immigrati a Leningrado dalle altre
repubbliche e regioni dello Stato dei Soviet.
La stragrande maggioranza delle
vittime, l’84,3%, erano senza partito, mentre il restante 15,7% comprendeva
membri oppure ex-membri del Partito Comunista (b).
Le vittime furono soprattutto operai e contadini
Anche in questo caso le scarne
cifre smascherano il mito, alimentato dalla propaganda sovietica, secondo cui
il più alto contributo di sangue fosse stato pagato dagli stessi membri dei
partiti comunisti e rivoluzionari. Analoga sorte subisce l’altro mito
“sovietico” sulla rivalsa del proletariato nei confronti degli sfruttatori e
degli intellettuali. La percentuale più alta delle vittime erano operai, il
28,1%, contadini, il 22,5%, ferrovieri, il 6%, e addetti al commercio, l’8,5%.
La percentuale di “ingegneri”, figura molto prestigiosa e vaga in Unione Sovietica,
è stata del 9,4%, mentre quella degli impiegati nell’insegnamento e negli altri
settori della cultura è stata del 3,8%.