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Perché la ‘Banalità del male’ di Hannah Arendt fa ancora arrabbiare gli israeliani?

quasi 60 anni dopo la sua pubblicazione

Processo Eichmann trial, 1961

Processo Eichmann trial, 1961 (Gjon Mili / The LIFE Picture Col)

Proponiamo di seguito la traduzione della riflessione di Michal Aharony sulla figura della Arendt su Haaretz dell'11 maggio 2019.

Quasi 60 anni dopo aver partecipato e scritto del processo Eichmann, Hannah Arendt rimane una figura controversa tra gli intellettuali in Israele.

“Arriverà un momento in cui non sarete vivi per vedere quando gli Ebrei erigeranno un monumento per voi in Israele... e vi proclameranno orgogliosamente come loro”, scrisse il filosofo Karl Jaspers alla cara amica Hannah Arendt nel 1963. Siamo nel 2019 e quel monumento non è ancora stato costruito in Israele. Sono passati quasi 60 anni dal processo ad Adolf Eichmann e il nome della Arendt continua a suscitare feroci critiche tra numerosi intellettuali israeliani. Sebbene sia considerata da molti una delle più grandi menti del XX secolo e anche se è sopravvissuta all'Olocausto ed è stata sionista (almeno per un certo periodo) - è stata boicottata in Israele per molti anni e la maggior parte dei suoi scritti sono stati tradotti in ebraico solo di recente. I forti sentimenti che la Arendt, mancata nel 1975, suscita negli studiosi, soprattutto israeliani, derivano principalmente dal suo libro “La banalità del male. Eichmann a Gerusalemme” del 1963. Basato su una serie di articoli scritti dalla Arendt per The New Yorker, l’opera critica il modo in cui Israele ha condotto il processo Eichmann e il modo in cui è stato ritratto l’imputato. La Arendt ha visto qualcosa di molto diverso dal mostro omicida e antisemita che l'accusa ha cercato di delineare: un nuovo tipo di assassino di massa, ma senza un movente malvagio, necessariamente letale, che non considerava il significato o si assumeva la responsabilità delle sue azioni. Ha attribuito a Eichmann ciò che ha definito “incoscienza”, l'incapacità di mettersi nei panni dell'altro.

Il libro ha scatenato in poco tempo aspre polemiche rimaste vive per tutti gli anni Sessanta. La Arendt è stata denunciata, persino da alcuni dei suoi più cari amici, come antisionista ed esempio di “odio ebreo per se stessi”. È stata accusata di essere a favore di Eichmann e di averlo assolto dalla colpa e dalla responsabilità dei suoi crimini. Il suo buon amico Gershom Scholem, studioso di cabala, le scrisse che le mancava “l'amore per il popolo ebraico”. La loro amicizia s’interruppe in seguito alla risposta della Arendt alla sua lettera. Per lunghi decenni, la Arendt venne ufficiosamente ostracizzata in Israele. I suoi libri non sono stati tradotti in ebraico e non si parlava del suo lavoro, né nella sfera accademica né in quella pubblica. Fu effettivamente sottoposta alla scomunica politico-intellettuale. È stato solo nel 2000 che venne pubblicato in Israele “Eichmann a Gerusalemme” e il pubblico di lingua ebraica ha potuto giudicare il testo da sé.

Più di recente, lo stato della Arendt in Israele ha cominciato a cambiare. Sebbene le vengano ancora mosse critiche nette, negli ultimi due decenni è cominciato un processo che riflette nuovi approcci al suo pensiero. Non è più un tabù: i suoi scritti sono oggetto di considerazione critica e più favorevole da parte degli studiosi israeliani, tra cui Adi Ophir, Michal Ben-Naftali e Leora Bilsky. Un motivo per cui si è gradatamente cominciato a parlare pubblicamente di lei è il predominio dei temi post-sionisti e postmoderni nei circoli accademici a partire dagli anni Novanta. La prima conferenza internazionale sulla Arendt in Israele si è tenuta a Gerusalemme nel 1997 e i suoi interventi sono stati successivamente pubblicati come raccolta di articoli (in inglese), scritti principalmente da studiosi provenienti dall'estero, a cura dello storico Prof. Steven Aschheim. Un passo notevole per l’introduzione della Arendt sulla scena israeliana è stato compiuto dalla storica Idith Zertal. Ha studiato il pensiero della Arendt e le controversie che la circondano e, a partire dagli anni Novanta, ha pubblicato diversi articoli su questi argomenti su gazzette e giornali israeliani. La Prof.ssa Zertal ha inoltre parlato ampiamente della Arendt nel suo libro “Israel's Holocaust and the Politics of Nationhood” (pubblicato in inglese nel 2005), sul tema della politica della memoria dell'Olocausto. Nel 2004, sulla scia della prima conferenza in lingua ebraica sulla Arendt, tenutasi all'Università di Tel Aviv, è comparsa anche una prima raccolta di saggi in ebraico. Nel 2010 è stata pubblicata la traduzione in ebraico fatta dalla Zertal dell’innovativo saggio della Arendt intitolato “Le origini del totalitarismo”. La rinascita della Arendt è proseguita grazie alla traduzione in ebraico di altri libri, tra cui “La condizione umana” e “The Jewish Writings”. Nell'ultimo decennio, le università locali hanno proposto alcuni corsi sulla Arendt, è andata in scena una commedia sulla sua vita ed è stata la protagonista di un documentario israeliano.

La Arendt ha sfidato e continua a sfidare il consenso ebraico e sionista. La rivoluzione concettuale che ha fomentato con il termine “banalità del male” e la sua pertinenza a 56 anni di distanza dalla sua prima comparsa, è ancora difficile da mandare giù anche nel nostro mondo di oggi. Cosa è di quel concetto che continua ancora oggi a suscitare profondo disagio fra gli intellettuali israeliani?

Arrestata dalla Gestapo

La Arendt è stata una sopravvissuta all'Olocausto in tutti i sensi, anche se non si definiva tale. Nata nel 1906 in una famiglia ebrea integratasi in Germania, sin dalla tenera età ha studiato filosofia. È stata allieva di Martin Heidegger e ha scritto la tesi di dottorato all'Università di Heidelberg sotto la supervisione di Karl Jaspers. Nel 1933 è stata arrestata dalla Gestapo per aver intrapreso attività sionista ed è stata rilasciata dopo una settimana da un giovane ufficiale con cui ha fatto amicizia. È riuscita a fuggire con la madre e ha raggiunto Parigi, dove ha trascorso otto anni come rifugiata. Ha anche lavorato per Youth Aliyah, organizzando gruppi di bambini e adolescenti per l'immigrazione in Palestina. In seguito all'occupazione della Francia, la Arendt è stata arrestata e incarcerata nel campo di Gurs, nel sud-ovest del Paese, ma è riuscita a fuggire in poche settimane. Nel 1941, la Arendt e suo marito, Heinrich Bluecher, sono fuggiti negli Stati Uniti, per i quali avevano il visto di rifugiati, passando da Lisbona. È diventata cittadina americana nel 1951 ed è vissuta nel Paese, perseguendo una brillante carriera accademica, fino alla sua morte, avvenuta nel 1975.

La lunga esperienza di rifugiata della Arendt ha contribuito notevolmente a plasmare il suo pensiero politico. Anche il suo giudaismo e approccio alla questione ebraica hanno rivestito una funzione importante in questo senso. La Arendt ha sviluppato una forte affinità con il sionismo, anche se era critica dell'ideologia sionista ed era sempre più censoria nei confronti di Israele.

Perché, nonostante la sua biografia, il suo libro ha provocato una controversia così accesa? La risposta sta in parte nella sua critica alla natura politica del processo Eichmann. La Arendt lo ha visto come un processo sensazionale - un evento politico con un programma specifico. Ha contestato il fatto che la maggior parte delle testimonianze non fosse pertinente per dimostrare la colpevolezza dell'imputato. Ha inoltre contestato l'attenzione dell'accusa alla categoria giuridica di “crimine contro il popolo ebraico”, volta a promuovere una narrativa storico-sionista in cui l'Olocausto veniva descritto come l’ennesimo anello di una lunga catena di persecuzioni contro gli Ebrei. Questo approccio, sosteneva, confermava il fatto che il tribunale non avesse colto pienamente la singolarità di Auschwitz. Dal suo punto di vista, i crimini nazisti non avevano precedenti e costituivano dei “crimini contro l'umanità”. Ciononostante, la fonte principale della rabbia nei suoi confronti era un’altra. Ciò che l’ha portata al boicottaggio in Israele sono state la sua interpretazione di Eichmann e la sua descrizione delle vittime della Shoah. La Arendt si è opposta al fatto che la descrizione di Eichmann da parte dell'accusa fosse stata guidata da un'ideologia razzista e omicida. Ha proposto un'interpretazione alternativa: Eichmann come burocrate impegnato a far avanzare la propria carriera, che evitava di fare i conti con le conseguenze delle sue stesse azioni. La Arendt ha contemplato l’ipotesi della comparsa di un “assassino da scrivania” che perpetra da lontano i suoi strazianti crimini, non uccidendo direttamente e vedendosi come cittadino rispettoso della legge che obbedisce a ordini superiori. Questo è stato il contesto in cui ha coniato il suo concetto più contestato e frainteso della ‘banalità del male’.

Sebbene il libro della Arendt fosse sottotitolato “Un rapporto sulla banalità del male”, il termine compare solo una volta nel testo, verso la fine. È stato sottoposto a infinite interpretazioni. Uno dei motivi dello smarrimento iniziale è stato che la Arendt non ha spiegato il termine nella prima edizione del libro. Lo ha fatto solo in un’appendice comparsa in un'edizione rivista e ampliata pubblicata nel 1965. I suoi successivi riferimenti al termine e la sua corrispondenza personale con gli amici hanno messo maggiormente in luce ciò che intendeva. La Arendt ha spiegato di non aver cercato di articolare nel libro una teoria completa sull'essenza del male, ma di aver piuttosto voluto indicare un fenomeno che aveva notato durante il processo. Con ‘banalità del male’, la Arendt aveva in mente due idee legate fra loro. La prima è che Eichmann non era una figura satanica o, in quel senso, un antisemita estremo. Era una persona normale. Non aveva motivo di agire in quel modo, se non quello di favorire la sua ascesa. Le sue azioni sono state mostruose, ma l'uomo in sé era ordinario.

La nozione di ‘banalità del male’ si riferisce al paradosso creato dalla società totalitaria, in cui un crimine senza precedenti viene messo in atto in modo ottimale da un apparato burocratico ordinario; suggerisce la disparità tra la vastità del crimine e la persona non eccezionale del criminale. Questo ha messo in discussione una lunga tradizione teologica, filosofica, morale e giuridica, protrattasi da Agostino a Kant, che sosteneva che gli atti del male devono necessariamente essere una manifestazione di cattive intenzioni e che il grado del male che trova espressione nei crimini dev’essere in linea con il grado di malvagità del movente. Il secondo elemento che la Arendt percepiva in Eichmann era “l’incoscienza”, caratteristica che definiva la “quasi totale incapacità di guardare qualsiasi cosa dal punto di vista dell'altro”. Ma ciò non lo ha assolto dalla responsabilità delle sue azioni. La lezione da trarre dal processo Eichmann, a suo avviso, era che questa sorta d’incoscienza, che “non coincide affatto con la stupidità”, può “provocare maggiore devastazione di tutti gli istinti malvagi presi insieme che, forse, sono intrinseci nell'uomo”. La sua tesi principale era che nell'atmosfera che regnava nella Germania nazista, Eichmann non avrebbe potuto distinguere tra bene e male. La Arendt lo ha definito un “nuovo tipo di criminale”, che commette i suoi crimini “in circostanze che rendono quasi impossibile conoscere o sentire che sta sbagliando”. Ciò che è così difficile da accettare sull'ipotesi della ‘banalità del male’ della Arendt - e su ciò che ha portato all'opposizione al libro in Israele - è che vi postulava un nuovo tipo di coscienza. Contrariamente al giudizio pronunciato nel processo, la Arendt non credeva che Eichmann dovesse “chiudere le orecchie alla voce della coscienza”, o che gli mancasse del tutto una coscienza, ma che la voce della coscienza della “rispettabile” società tedesca non gli diceva di sentirsi in colpa per le sue azioni.

Mentre la legge negli Stati illuminati presuppone che la voce della coscienza dica a tutti “Non uccidere”, la legge nello Stato di Hitler richiedeva alla voce della coscienza di dire a tutti “Uccidi”. In effetti, una delle affermazioni di Eichmann nel processo è stata, come scrive la Arendt, “che non c'erano voci dall'esterno a risvegliare la sua coscienza”. Un altro motivo alla base del rancore nei confronti della Arendt erano le sue critiche riguardo l'immagine delle vittime dell'Olocausto. Ha contestato l'evasione sistematica dell'accusa nella trattazione della collaborazione dei leader degli Judenräte (consigli ebraici) con i nazisti. Una delle accuse più difficili da accettare nel libro è che se gli Ebrei fossero stati meno ben organizzati e se non avessero avuto una leadership, il numero complessivo di vittime non sarebbe stato così elevato. “Per un ebreo”, afferma la Arendt, “questo ruolo dei leader ebrei nella distruzione del proprio popolo è senza dubbio il capitolo più oscuro di tutta questa storia oscura”. Questa affermazione ipotetica è ovviamente una tesi che la Arendt non poteva dimostrare.

Oltraggio morale

Alcuni detrattori della Arendt hanno interpretato l’espressione ‘banalità del male’ come una descrizione dei crimini stessi. Con questo pensiero, se i crimini nazisti erano ordinari, ne consegue che non fossero imperdonabili. Altri hanno interpretato i suoi commenti sulla responsabilità dei leader ebrei come il classico esempio di un modo per incolpare la vittima. Entrambi i gruppi hanno visto il suo libro come una sfocatura pericolosa dei confini che potrebbe portare al nichilismo morale. Critiche di questo tipo, sollevate subito dopo la pubblicazione del libro, vengono tuttora espresse. La storica israeliana Anita Shapira, ad esempio, sostiene che l'approccio critico della Arendt rispecchia ambiguità morale, ed è questo che l'ha resa una delle preferite dei postmodernisti. “Nulla è come sembra”. Non c'è verità, menzogna, vittima, assassino. Nessuno è colpevole, nessuno è innocente, non esiste gerarchia di valori, nessun valore è assoluto”, ha scritto la Shapira in un articolo del 2004, intitolato “The Eichmann Trial: Changing Perspectives”.

Elhanan Yakira, ex capo del Dipartimento di Filosofia dell’Università Ebraica, ha affermato nel suo libro “Post-sionismo, post-Olocausto” (pubblicato in inglese nel 2009) che “Eichmann a Gerusalemme” non è solo il peggior libro della Arendt, è anche “moralmente scandaloso” e un fallimento filosofico-morale. In un articolo successivo, ha spiegato come il suo tentativo di esporre il fallimento intellettuale del libro facesse parte di uno schema più ampio volto a denunciare il fallimento morale degli allora critici del sionismo, che diffamavano Israele con “l’uso sistematico dell’Olocausto come arma ideologica”. Uno dei flagranti errori del libro di Yakira è la sua affermazione che la Arendt si fosse impegnata in un “atto di soppressione” nei confronti dei crimini nazisti. La Arendt, sostiene, fa a malapena riferimento allo sterminio stesso. È vero che la teoria del totalitarismo della Arendt si concentrava più sui campi di concentramento e meno sui campi di sterminio, ma questo non derivava in alcun modo da una “soppressione” dei crimini. Le atrocità di Auschwitz hanno fatto sobbalzare ogni fibra del suo essere. Lo sterminio è presente in tutto il suo libro su Eichmann ed è alla base del suo pensiero.

Un’autrice che si è spinta molto più in là è Tzvia Greenfield, giornalista di Haredi (e per un breve periodo membro della Knesset di Meretz). Nel suo libro in ebraico del 2017 “Collapse: The Disintegration of the Political Left in Israel”, la Greenfield ripete le stesse infondate accuse pronunciate 50 anni fa contro la Arendt. La giornalista ribadisce più volte che, secondo la Arendt, “sono stati proprio gli stessi Ebrei ad aver effettivamente provocato la catastrofe dello sterminio” attraverso la collaborazione degli Judenräte con i nazisti. La Greenfield sostiene addirittura che la Arendt abbia affermato che “Eichmann è la vera vittima degli eventi storici”. Dubito che la Greenfield, che accusa la Arendt di esprimere opinioni che “rasentano la negazione dell’Olocausto”, né più né meno, abbia letto attentamente “Eichmann a Gerusalemme”. Sarebbe difficile altrimenti capire come abbia potuto criticare la Arendt per aver indebolito le “implicazioni dell’Olocausto” per giustificare il trattamento violento di Israele nei confronti dei Palestinesi, in un libro che è stato pubblicato quattro anni prima della Guerra dei Sei Giorni. La Greenfield traccia una linea diretta tra la critica della Arendt a David Ben-Gurion e l’ideologia sionista e il movimento di boicottaggio del BDS, che sostiene stia minando la legittimità d’Israele.

Diciamolo chiaramente: in nessun passo del libro, la Arendt assolve i nazisti in generale o Eichmann in particolare. La Arendt si opponeva con veemenza alla teoria dell’ “ingranaggio nella macchina”, secondo cui Eichmann non era ritenuto responsabile delle sue azioni. Anche gli ufficiali sono esseri umani e in quanto tali sono passibili di biasimo e colpevoli. Eichmann, sostiene la Arendt, è stato accusato come essere umano; sotto processo vi era un uomo, non l’intero regime nazista. Né, contrariamente a molti dei suoi amici, si è opposta alla pena di morte cui è stato condannato. Inoltre, la Arendt non ha mai affermato che gli Ebrei dovessero essere incolpati della loro stessa distruzione. La sua descrizione del ruolo dello Judenrat costituisce in effetti una parte provocatoria e dolorosa del suo libro, caratterizzata da un approccio aspramente critico e insensibile. Anche se la sua trattazione dell’argomento è lunga solo 12 pagine, è stato ciò che ha suscitato contro di lei la reazione più feroce e la rabbia più intensa. Le sue opinioni sul comportamento della leadership ebraica durante l’Olocausto erano molto simili all’approccio prevalente in Israele durante i suoi primi vent’anni di esistenza. L’approccio critico nei confronti della Polizia Ebraica e dei leader degli Judenräte, e contro tutti coloro che venivano sospettati di “collaborazionismo” con i nazisti, prevalse nel Paese. Questo si è riflesso nella legislazione – in particolare nella Legge per la Punizione dei Nazisti e dei loro Collaboratori (1950), nei cosiddetti “processi dei Kapo” negli anni Cinquanta e nel processo a Rudolf Kastner nel 1955. Allo stesso tempo, la Arendt non ha censurato le vittime che sono andate a morire, a quanto pare, come “pecore al macello”. Al contrario: ha criticato Gideon Hausner, Pubblico Ministero, per aver chiesto ripetutamente ai sopravvissuti: “Perché non avete protestato?”, “Perché siete saliti sul treno?”… “Perché non vi siete ribellati, perché non avete reagito e attaccato?”. Le ha definite domande sciocche e crudeli, che testimoniavano un totale fraintendimento di come fosse la vita sotto il terrore omicida della dittatura nazista. Ha messo inoltre in evidenza come anche sotto l’occupazione tedesca nessun’altra popolazione non ebrea si sia comportata in modo diverso. Idith Zertal ha aggiunto nel suo libro che l’approccio del Pubblico Ministero puntava meno a capire la situazione ebraica sotto il dominio nazista, piuttosto che a compiacere le esigenze della narrativa sionista e dell’immagine di sé che voleva dare.

Il settore dell’aula in cui si è seduta la Arendt, quello dei sopravvissuti, è stata un’espressione simbolica della sua decisione di sedersi in mezzo a loro piuttosto che nella sezione riservata a VIP e giornalisti. La sala, ha scritto la Arendt, “era piena di ‘sopravvissuti’, persone di mezza età e anziani immigrati dall’Europa, come me, che sapevano a memoria tutto ciò che c’era da sapere e che non erano dell’umore giusto per imparare lezioni e senza dubbio non avevano bisogno di questo processo per trarre le proprie conclusioni”. Come molti sopravvissuti all’Olocausto, anche la Arendt pensava che gli enormi crimini commessi dai nazisti non potessero essere rappresentati adeguatamente attraverso il processo, ma riconosceva comunque che non c’erano altri strumenti con cui giudicarli.

La Arendt non ha avuto pazienza né per la teatralità di Hausner né per le decine di testimoni ascoltati nel processo. La sua retorica talvolta era aggressivamente graffiante, probabilmente in modo eccessivo. Il suo tono era intriso d’ironia e talvolta mostrava mancanza di empatia nei confronti di alcune testimonianze, il che faceva infuriare la comunità ebraica in Israele e all’estero. Come ha osservato la filosofa ebreo-turca-americana Seyla Benhabib, molti dei termini usati dalla Arendt nel suo libro mostravano sorprendente mancanza di prospettiva e di senno, e soprattutto forte coinvolgimento emotivo e mancanza di distanza dall’argomento che stava esaminando. Non è stata in grado di trovare “il linguaggio pubblico opportuno, le parole giuste con le quali narrare il dolore, la sofferenza e la perdita passati”. Anche la Zertal ritiene che la retorica della Arendt abbia contribuito a rendere il libro controverso. “Le cose stesse”, mi ha detto in un’intervista, “le parole caustiche e prive di compassione erano spesso molto più di quanto le persone di quell’epoca e di questo luogo potessero sopportare”. Tuttavia, al di là di questo, afferma: “Ciò che era accettabile e tollerabile per il popolo dello Yishuv, il collettivo sionista “noi”, non era lecito per la donna ‘straniera’ della Diaspora e antisionista, come la definivano i suoi critici. È comparsa nel bel mezzo di un processo-evento ben organizzato a mettere scompiglio fra i suoi messaggi ideologici, che rasentavano la teologia, sulla redenzione sionista scaturita dallo sterminio ebraico. Il fatto che fosse una donna, una pensatrice rivoluzionaria e dall’intelligenza brillante in un contesto in cui la conoscenza era appannaggio degli uomini, non ha certo facilitato la sua accettazione”.

Oltre a ciò, vale la pena soffermarsi sulla posizione ambivalente che la Arendt rappresenta come rifugiata ebrea da un lato, la cui vita è stata plasmata in virtù del suo ebraismo e dei suoi legami con il sionismo, e dall’altra parte, come osservatrice esterna portatrice di una critica verso il progetto sionista. Secondo lo scrittore e traduttore Michal Ben-Naftali, profondamente influenzato dalla Arendt a cui ha dedicato un libro, “Non è possibile neanche per un momento accusare la Arendt di alienazione dalla sua ebraicità. Non solo è impegnata con impegno e responsabilità derivanti da tale identità, ma dagli anni Quaranta in poi scrive di temi ebraici e sionisti da una posizione di coinvolgimento e preoccupazione, sebbene ciò non porti mai all’integrazione o a un inequivocabile senso di solidarietà”. Ben-Naftali aggiunge: “Mi sembra che proprio la fusione insolita d’interesse e di distanza critica generi nel migliore dei casi sospetto nei suoi confronti, e nel peggiore, profondo rifiuto”.

Salvare lo Stato Ebraico

Anche se la Arendt non si considerava membro di nessun gruppo politico e anche se è difficile etichettarla di “sinistra” o di “destra”, la sua scrittura critica ha anticipato alcuni dei problemi principali che sono stati trattati anni dopo negli studi condotti dai “Nuovi storici” e dai “Post-Sionisti”. Già nei primi articoli degli anni Quaranta, la Arendt era critica nei confronti dello Stato Nazionale Ebraico, sosteneva le strutture politiche binazionali e multinazionali e metteva in guardia contro la minaccia alla popolazione araba della Palestina. Nel suo libro su Eichmann ha denunciato lo sfruttamento del ricordo dell’Olocausto da parte del progetto sionista. La Arendt ha toccato un sacco di nervi scoperti, che continuano ancora oggi a generare accese discussioni. Nel 1948, al culmine della guerra d’indipendenza d’Israele, molto prima che la Legge Stato Nazione venisse promulgata e molto prima che il Primo Ministro Benjamin Netanyahu presentasse i piani di Auschwitz-Birkenau all’Assemblea Generale delle Nazioni Unite, la Arendt ha scritto quanto segue in un articolo intitolato “To Save the Jewish Homeland”: “Anche se gli Ebrei dovessero vincere la guerra, la sua fine troverebbe distrutte le opportunità uniche e le straordinarie conquiste del Sionismo in Palestina. La terra che verrebbe alla luce sarebbe qualcosa di diverso dal sogno dell’ebraismo mondiale, sionista e non-sionista. Gli Ebrei “vittoriosi” vivrebbero circondati da una popolazione araba del tutto ostile, isolata all’interno di confini sempre posti sotto minaccia, assorbita da una continua autodifesa fisica in grado di cancellare tutti gli altri interessi e attività. La crescita di una cultura ebraica smetterebbe di essere la preoccupazione di tutto il popolo; gli esperimenti sociali dovrebbero essere scartati come un lusso poco pratico; il pensiero politico sarebbe focalizzato sulla strategia militare; lo sviluppo economico sarebbe determinato esclusivamente dalle esigenze della guerra”.

Il libro della Zertal del 2018 “Refusal: Conscientious Objection in Israel” (in ebraico), che affronta la questione del male politico e le possibilità di sollevarsi contro di esso, esamina il background intellettuale, politico e storico dell’obiezione di coscienza all’interno dell’esercito israeliano, in particolare in relazione all’occupazione. “Eichmann a Gerusalemme” è il punto di partenza del libro. La Zertal mostra come le idee della Arendt, ivi compresa la ‘banalità del male’, respinte e represse per anni, siano presenti nel pensiero dei giovani israeliani e influenzino le loro scelte e le loro decisioni “durante il servizio militare e anche in seguito”. Il libro contiene interviste a soldati di vario rango, da ufficiali di riserva all’ex direttore dei servizi di sicurezza dello Shin Bet, Ami Ayalon, che parlano di come sono diventati funzionari che hanno solo fatto il loro dovere nelle azioni operative, in un contesto limitato che lasciava loro poco spazio per pensare.

La Arendt è indubbiamente una delle più grandi e influenti pensatrici del XX secolo”, mi ha detto la Zertal. “E ha deciso consapevolmente di non essere una filosofa nel senso di pensare e riflettere isolandosi dal mondo, ma si vedeva piuttosto come una pensatrice politica la cui filosofia era alimentata dalle esperienze della vita. Ha vissuto tutto in prima persona: guerre mondiali, nazismo, Olocausto, totalitarismo, rivoluzioni, post-colonialismo, vita da rifugiata e migrazioni. Sono pochi i pensatori che hanno introdotto nel loro lavoro così tante questioni critiche per decifrare il mondo e che lo hanno fatto con passione intellettuale, brillantezza e coraggio così intransigenti come la Arendt”. Ho chiesto alla Ben-Naftali ciò che ritiene renda unica la Arendt. Ha risposto che era attirata dal suo pensiero “per il suo coraggio anticonformista e l’impegno nell’infrangere i cliché e le norme del pensiero in modo imparziale”. Secondo la Ben-Naftali, “La scrittura della Arendt è caratterizzata da estrema complessità. Mi sembra che molte persone non riescano a sopportare la complessità in contesti che considerano ‘volatili’. Questa tendenza rende superficiali ed effettivamente superflui molti dei dibattiti su questioni pubbliche, e non solo in questo contesto”.

“In un certo senso, la Arendt lo sapeva. Sapeva che mirava a ciò che era intollerabile e agiva semplicemente senza tatto, toccando cose che non erano ancora mature per essere toccate. Non ci sono molte persone in grado di farlo e di pagare il prezzo che ha pagato lei. In un certo senso, già quando venne pubblicato, il libro era rivolto alla sensibilità di una generazione più giovane di quella di cui faceva parte la Arendt. Da questo punto di vista, la scrittura della Arendt ci attende ancora negli anni a venire”.

La Dr.ssa Michal Aharony è impegnata nella ricerca sull'Olocausto e sulla filosofia politica ed è autrice di “Hannah Arendt and the Limits of Total Domination: The Holocaust, Plurality, and Resistance” (Routledge, 2015). Il suo sito web è https://michalaharony.net/.

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