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Le ferite autoinflitte di Israele

di Ronald S. Lauder

Il 18 marzo 2018, il Presidente del Congresso Mondiale Ebraico Ronald S. Lauder ha confidato al New York Times le sue preoccupazioni per il futuro dello Stato di Israele, minacciato, a suo dire, dal venir meno della soluzione dei due Stati e dall'affermazione di una politica sempre più condizionata dai voleri degli "ultraortodossi", contrari a uno stato pluralistico e laico. Proponiamo il suo intervento tradotto.

Mentre si avvicina il 70° anniversario della fondazione dello Stato di Israele, mi sento davvero orgoglioso vedendo come il vulnerabile Stato ebraico della mia infanzia si sia evoluto per diventare la forte e prospera nazione di oggi.

In qualità di Presidente del World Jewish Congress, credo che Israele sia essenziale per l’identità di ogni ebreo, e per me è una seconda casa, tuttavia al giorno d’oggi temo per il futuro della nazione che amo.

È vero, l’Esercito Israeliano è più forte di qualsiasi altro esercito nel Medio Oriente e, naturalmente, l’eccellenza economica di Israele è rinomata nel mondo. In Cina, India e nella Silicon Valley, la tecnologia, le innovazioni e l’imprenditorialità di Israele sono venerate. Tuttavia lo Stato democratico di Israele affronta due gravi minacce alla sua stessa esistenza.

La prima è il possibile abbandono della soluzione dei due Stati. Io sono un conservatore e un repubblicano, e ho sostenuto il Likud fin dagli anni ’80, ma la realtà è che 13 milioni di persone vivono tra il fiume Giordano e il Mar Mediterraneo e quasi la metà sono palestinesi. Se l’attuale tendenza continua, Israele si troverà davanti a una scelta dura: garantire ai palestinesi pieni diritti e cessare di essere uno Stato ebraico o rescindere i loro diritti e cessare di essere una democrazia. Per evitare questi esiti inaccettabili, l’unica via è la soluzione dei due Stati.

Il Presidente Trump e la sua squadra hanno preso un impegno stringente verso la pace in Medio Oriente. Gli Stati arabi come l’Egitto, la Giordania, l’Arabia Saudita e gli Emirati Arabi Uniti ora sono più vicini a Israele di quanto lo siano mai stati in passato, e contrariamente a quanto riportato da molti media, i leader palestinesi più importanti sono – e me l’hanno detto di persona – pronti a iniziare negoziati diretti. Tuttavia alcuni israeliani e palestinesi stanno portando avanti con insistenza iniziative che minacciano di compromettere questa opportunità.

Le provocazioni e l’intransigenza palestinesi sono distruttive, ma lo stesso si deve dire dei piani di annessione promossi dalla destra, e dall’ampio lavoro di costruzione di insediamenti oltre la linea di separazione. Negli ultimi anni, gli insediamenti nella West Bank che secondo qualsiasi accordo diventerebbe molto probabilmente parte di uno stato palestinese, hanno continuato a crescere ed espandersi. Tali politiche israeliane miopi stanno creando una realtà a un solo stato irreversibile.

La seconda, duplice minaccia è costituita dalla capitolazione di Israele davanti agli estremisti religiosi e dalla crescente disaffezione della diaspora ebraica. La maggior parte degli ebrei residenti fuori Israele non sono ben accetti agli occhi degli ultraortodossi israeliani, che controllano la vita rituale e i luoghi santi dello Stato. Sette su otto milioni di ebrei che vivono in America, Europa, Sud America, Africa e Australia sono ortodossi moderni, conservatori, riformati o laici. Molti di loro sentono, particolarmente negli ultimi anni, che la nazione che hanno sostenuto politicamente, finanziariamente e spiritualmente sta voltando loro le spalle.

Cedendo alle pressioni esercitate da una minoranza in Israele, lo Stato ebraico si sta alienando un ampio segmento del popolo ebraico. La crisi è particolarmente pronunciata nelle giovani generazioni, che sono prevalentemente laiche. Un numero sempre più consistente di millennial ebrei – particolarmente negli Stati Uniti – sta prendendo le distanze da Israele per via del fatto che le sue politiche sono contrarie ai loro valori. Il risultato non sorprende: assimilazione, alienazione e una grave erosione dell’affinità della popolazione ebraica globale con la patria ebraica.

Nell’ultimo decennio ho incontrato le comunità ebraiche di oltre 40 Paesi. In ognuna diversi appartenenti mi hanno espresso la loro preoccupazione e ansia per il futuro di Israele e il suo rapporto con l’ebraismo della diaspora.

Molti ebrei non ortodossi, me compreso, avvertono che la diffusione della religiosità imposta dallo Stato di Israele sta trasformando una nazione moderna e liberale in una quasi teocratica. Un’ampia maggioranza di ebrei nel mondo non accetta l’esclusione delle donne da certe pratiche religiose, le rigide regole per la conversione o il divieto di preghiere eguali per tutti al Muro Occidentale. Sono sconcertati dall’impressione che Israele stia abbandonando la visione umanistica di Theodor Herzl e assumendo un carattere non confacente ai suoi valori fondamentali o allo spirito del 21° secolo.

La leadership dello Stato ebraico onora sempre le scelte fatte dall’elettore israeliano e agisce con il governo di Israele democraticamente eletto. Sono anche profondamente conscio che gli israeliani siano in prima linea, e rischino la vita ogni giorno perché gli ebrei del mondo possano sopravvivere e prosperare. Io sono il primo a voler esprimere la mia gratitudine.

Eppure, a volte, la lealtà richiede le parole di un buon amico capaci anche di sottolineare una realtà scomoda. E la verità è che lo spettro di una soluzione a uno Stato e la frattura crescente tra Israele e la diaspora stanno mettendo a rischio il futuro del Paese che amo così profondamente.

Siamo a un bivio. Le scelte che Israele compirà nei prossimi anni determineranno il destino del nostro unico, anche per qualità, Stato ebraico – e il proseguimento dell’unità del nostro popolo amato.

Dobbiamo cambiare direzione. Dobbiamo promuovere una soluzione a due Stati e trovare un terreno comune per assicurare il successo della nostra amata nazione.

22 marzo 2018

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