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​La prevenzione dei genocidi

di Marcello Flores

Marcello Flores durante l'incontro

Marcello Flores durante l'incontro (Foto di Francesca Cassaro)

Pubblichiamo di seguito l'intervento di Marcello Flores alla conferenza "La prevenzione dei genocidi", primo dei quattro incontri dedicati alla crisi dell'Europa e i Giusti del nostro tempo organizzati da Gariwo in collaborazione con il Teatro Franco Parenti, con il patrocinio dell'Università degli Studi di Milano e della Fondazione Corriere della Sera.

Nel dicembre 1948 le Nazioni Unite decisero di approvare quasi contemporaneamente due provvedimenti fondamentali, che sono ancora adesso alla base della nostra idea dei diritti e del diritto internazionale. Il 10 dicembre venne approvata la Dichiarazione universale dei diritti umani, che per la prima volta sancì l’uguaglianza totale di tutti gli individui, di ogni persona, di cui andava garantita la difesa e tutela dei diritti fondamentali. Il giorno precedente, il 9 dicembre, era stata approvata la Convenzione sul genocidio. Perché in un caso si era scelta la strada della convenzione e in un’altra quella della dichiarazione? La commissione per i diritti umani presieduta da Eleanor Roosevelt, che avrebbe compiuto il formidabile lavoro di darci il più bel documento moderno – trenta articoli di una chiarezza e semplicità incredibili, che riassumevano i ben cinquecento diritti elencati nella prima fase del lavoro – aveva pensato in un primo tempo a una convenzione ma poi aveva compreso che la convenzione, che implica un obbligo politico-giuridico forte e immediato, non sarebbe stata votata da parecchi membri della Nazioni Unite (all’epoca cinquanta), indebolendo così fin da subito la volontà di difendere i diritti fondamentali. Si scelse così la strada della dichiarazione, un impegno politico-morale che non prevede alcuna sanzione per chi disattenda il documento sottoscritto, come invece accade per le convenzioni.

La questione del genocidio era invece diversa. L’accoppiata del 9 e 10 dicembre 1948 voleva stabilire in forma solenne e incontrovertibile che – dopo la tragedia della seconda guerra mondiale, del nazismo e della Shoah – non sarebbe più stato possibile ripetere quei crimini e si individuava la forma nuova per difendere i diritti di tutti. Il 9 dicembre si parlava del passato per pensare al futuro, il 10 dicembre si guardava al futuro condannando indirettamente il passato.

La Convenzione sul genocidio, come recita il suo stesso titolo, riguarda prima la prevenzione che la punizione (Convenzione per la prevenzione e repressione del crimine di genocidio), e parte dall’idea – che sarà uno slogan spesso ripetuto – di non fare accadere MAI PIÙ quanto era appena successo, anche con la minaccia, ovviamente, di portare in giudizio chi osasse provarci. Un giudizio analogo, si pensava, a quello che c’era stato da poco, a Norimberga, dove il crimine di genocidio non era stato inserito tra i capi ufficiali di imputazione (crimini contro la pace, crimini di guerra, crimini contro l’umanità) ma era stato utilizzato in alcuni momenti per sottolineare la novità e gravità dei crimini commessi dai nazisti.

Genocidio era una parola nuova, un termine nuovo ma anche un concetto nuovo, da un punto di vista giuridico, perché si riferiva a un crimine commesso non contro un individuo – la base della moderna legge penale – ma contro un gruppo intero. Parola coniata nel 1944 dal giurista ebreo polacco Raphael Lemkin, fuggito negli USA dopo l’occupazione della Polonia nel 1939.

Questa Convenzione, che è entrata in vigore nel gennaio 1951, dopo la ratifica del numero minimo di Stati previsto, è inviolabile e inderogabile, da parte della giustizia internazionale, anche per gli Stati che non l’hanno riconosciuta (l’Italia aderisce nel 1952 e nel 1967 approva la propria legge sulla prevenzione e repressione del delitto di genocidio). Quali sono stati i genocidi avvenuti dopo la ratifica della convenzione? Non ci si può addentrare in modo facile nella discussione accesa che esiste tra giuristi, storici e scienziati sociali, su quali siano stati i genocidi dopo il 1948 o su quelli precedenti alla introduzione del termine e del concetto di genocidio che era – come scrisse Lemkin – una parola nuova per una pratica antica. Per Gregory Stanton, ad esempio, il fondatore di Genocide Watch, dal 1945 ci sarebbero stati 55 genocidi per un totale di 70 milioni di vittime. Possiamo, in ogni modo, basarci sulle decisioni prese da tribunali internazionali, e sostenere che ci sono stato solamente due genocidi dal 1948, a metà degli anni ’90, in Ruanda e in Bosnia, come stabilito dai tribunali ad hoc creati proprio per punire i responsabili di questi crimini.

Perché la comunità internazionale ha dovuto attendere gli anni ’90 per tornare a parlare di genocidio? Perché soltanto con la fine della Guerra Fredda (e del comunismo nel 1989-91) si è trovata una nuova visione condivisa sui diritti umani e sulle violazioni gravi contro di essi, che precedentemente erano rubricate all’interno del contrasto tra due superpotenze e del loro appoggio ai diversi Paesi o fazioni in conflitto tra loro in varie parti del mondo? Gli anni ’90 hanno visto contemporaneamente, e in modo contraddittorio, una forte rinascita della cultura dei diritti e una grave e ripetuta violazione di essi, anche quando la comunità internazionale avrebbe potuto evitarlo. È troppo noto il caso del Ruanda per ritornarci: ma sarebbe bastato accogliere la richiesta del generale Romeo Dallaire, alla testa del contingente ONU della missione Unamir, di avere altri 5000 uomini, per bloccare sul nascere il genocidio. O sarebbe bastato che il contingente olandese in Bosnia non si piegasse alla volontà omicida di Mladić e dei suoi uomini per evitare il massacro di Srebrenica.

Proprio dopo il genocidio in Ruanda le Nazioni Unite hanno compiuto una riflessione importante, individuando cinque punti per una prevenzione futura efficace: prevenire i conflitti armati (il contesto più facile e necessario per ogni genocidio) e, in caso scoppino, proteggere le minoranze; proteggere i civili dentro i conflitti armati e concedere più poteri alle missioni di peacekeeping per salvare i civili; implementare il sistema giudiziario internazionale per porre fine all’impunità dei responsabili; imporre una rapida e decisiva azione da parte del Consiglio di sicurezza quando c’è di mezzo un genocidio; allestire un sistema di “allerta” precoce (early warnings system).

Da allora alcuni passi in avanti, anche notevoli, sono stati fatti: primo fra tutti la creazione della Corte penale internazionale che, sulla base dello Statuto di Roma del 1998, è entrata in funzione nel 2002. Ma anche, nel 2004, la creazione della figura del Consulente speciale sulla prevenzione del genocidio, nel 2005 la risoluzione in proposito della World Summit Conference, nel 2006 la creazione del Consiglio dei diritti umani per monitorare le violazioni.

I problemi irrisolti, in ogni modo, restano i due più importanti, che costituiscono il vero tallone d’Achille per ogni realistica prevenzione: la mancanza di volontà politica (delle Nazioni Unite, dei gruppi di Stati, di singoli Stati) e il potere di veto nel Consiglio di sicurezza, che hanno ostacolato in troppe occasioni la possibilità di intervenire per bloccare un genocidio quando era iniziato o quando erano presenti i primi segnali di aggravamento di una crisi che sarebbe potuta sfociare in genocidio. A questo si deve aggiungere la mancanza di una forza di polizia o di intervento stabile delle Nazioni Unite, che è però la conseguenza di quanto ricordato prima. Pensiamo, per tornare ai due casi «acclarati» e riconosciuti da tutti, Rwanda e Bosnia, al rifiuto di usare il termine «genocidio» da parte dell’Amministrazione americana e della Francia. Un’ulteriore difficoltà è insita nella convenzione stessa, che prevede come indispensabile per parlare di genocidio di provare «l’intento» di distruggere in tutto o in parte un gruppo etnico o religioso (ricordiamo che non sono presenti, anche se Lemkin l’aveva proposto, i gruppi culturali e quelli politici, perché nel 1948 Gran Bretagna a Francia non volevano i primi, per timore di essere coinvolti nella loro attività coloniale, e l’Unione Sovietica i secondi, per paura di essere accusati rispetto alla repressione politica di ogni opposizione). Provare l’intenzione non è facile, ed è proprio questo terreno, ad esempio, che hanno cercato di utilizzare e strumentalizzare i negazionisti della Shoah o di altri genocidi.

Per correttezza è necessario ricordare che ci sono stati dei casi in cui si è riusciti a evitare un possibile genocidio: ad esempio a Timor Est, con l’invio della missione Onu Interfet - che giunse, però, dopo decenni di massacri e di complicità delle potenze occidentali con l’Indonesia. La comunità internazionale ha indicato da tempo quali sono i «segnali» precoci di una situazione che può evolvere in genocidio: una storia passata di violenza e conflitto (come era stato sia in Ruanda sia in Bosnia); una grave crisi economica incombente; una mobilitazione di tipo comunitario contro una minoranza; una insistente propaganda di odio; una legislazione discriminatoria. Nella realtà del dopoguerra, compresi gli ultimi decenni posteriori alla fine della guerra fredda, ha sempre prevalso, però, una diffusa realpolitik, in cui gli interessi nazionali e statali di un singolo o più Paesi veniva prima, necessariamente, dell’interesse collettivo, di quello delle vittime o delle possibili vittime di violenze e massacri.

È in base alla realpolitik, ad esempio, che vi è stata sia in Ruanda che in Bosnia una sottovalutazione e minimizzazione di quanto stava avvenendo o si stava prefigurando: perché si voleva evitare l’uso dell’articolo 8 della Convenzione sul genocidio che rimandava al capitolo 7 della carta delle Nazioni Unite (quella relativa all’azione rispetto alle minacce alla pace, alle violazioni della pace ed agli atti di aggressione). Dove si è deciso di intervenire, in Kosovo nel 1999 – e ricordiamo quali dibattiti e controversie quell’intervento abbia suscitato – la Nato lo fece «illegalmente», cioè senza l’autorizzazione del Consiglio di sicurezza, perché riteneva che vi fosse comunque la possibilità imminente di genocidio; mentre in Libia nel 2011 l’Onu autorizza l’uso della forza contro Gheddafi per proteggere la popolazione civile (di Bengasi e Cirenaica), escludendo una «forza di occupazione straniera» in qualsiasi forma.

Vorrei affrontare adesso più in dettaglio la questione dell’intervento, di quale o quali interventi sono possibili, ci sono stati, che risultati hanno avuto. In decenni passati ci sono stati numerosi interventi militari senza base legale, senza la legittimazione delle Nazioni Unite: quello dell’India in Pakistan nel 1971, per il Bangladesh; quello del Vietnam in Cambogia nel 1978; quello della Tanzania in Uganda nel 1979. Tutti interventi «illegali» che sono serviti, però, a interrompere dei massacri continui e indiscriminati e, nel caso cambogiano, un vero e proprio genocidio. Negli anni ’90 e nel 2000 vi è stato un gran numero di interventi delle Nazioni Unite, ma estremamente frammentati e deboli, spesso per la lentezza e l’immobilismo del Consiglio di sicurezza, per l’inefficacia e gli errori nelle azioni intraprese, per la scarsezza di risorse messe a disposizione. Ma vi sono anche stati interventi non legittimi e autorizzati, che hanno però creato il clima politico e culturale con cui l’opinione pubblica si confronta con il tema dell’intervento.

Io, per non nascondere le mie convinzioni, dico subito che penso che l’intervento sia uno strumento utile, fondamentale e legittimo in molti casi, sia quando è autorizzato dalle Nazioni Unite (in quel caso è sempre legittimo anche se può non essere utile) sia, in alcuni casi, quando non lo è. Penso che, accanto ai casi già ricordati del Bangladesh o della Cambogia, l’intervento Nato nel 1995 è stato fondamentale per porre fine alle guerre jugoslave e che è sempre stato un intervento armato a porre fine ai genocidi (quello Nato in Bosnia, quello del Fronte patriottico in Ruanda, quello vietnamita in Cambogia, quello sovietico e angloamericano per la Shoah, quello alleato in Turchia per gli armeni). Ci sono stati interventi – come quello in Iraq da parte dell’Amministrazione Bush nel 2003 – che, oltre a essere stati illegittimi, hanno creato una situazione disastrosa, convincendo che – sempre e in ogni caso – un intervento armato non può che peggiorare la situazione. Quell’intervento, che vide per l’ultima volta una grande protesta mondiale di tipo pacifista, venne criticato proprio dalle associazioni per i diritti umani che in altre situazioni, prima e dopo, avevano chiesto o chiederanno di intervenire per porre fine alle violenze: in particolare in Darfur dal 2003 e in Siria dal 2011.

Se vogliamo avere qualche dato (come tutti i dati passibili di imperfezioni), possiamo ricordare che l’intervento in Iraq, dal 2003 al 2012, ha prodotto quasi duecentomila morti, di cui circa 140 mila civili; le violenze in Darfur circa 400 mila; quelle in Siria anche circa 400 mila. I profughi dall’Iraq sono stati circa due milioni e mezzo, dal Darfur quattro milioni, dalla Siria 11 milioni. Credo non si possa più continuare a discutere sulla base dell’opzione intervento sì/intervento no, con considerazioni di carattere generale, di opzioni politico-morali, di scelte di pacifismo più o meno integrale o di interventismo comunque affidato ai vertici politico-militari degli Stati più forti. Occorre contribuire a creare una cultura integrata dei diritti e della prevenzione dei genocidi che possa prevedere ogni tipo di intervento, ogni possibile soluzione, sulla base di una valutazione, caso per caso, del diritto internazionale, degli interessi degli Stati coinvolti, della realpolitk seguita dalla maggior parte dei governi. E, soprattutto, delle esigenze e necessità delle popolazioni sotto assedio e vittime della violenza.

La prevenzione è sempre stata particolarmente difficile, e per i genocidi quasi impossibile: solo quando il genocidio è in corso, in effetti, possiamo essere sicuri (e non sempre tutti gli osservatori) che davvero di genocidio si tratta. La guerra è il contesto-copertura indispensabile per distruggere un gruppo individuato come nemico da annientare e la guerra accentua il senso di insicurezza e paura e la spinta a rimuovere il gruppo che si pensa possa costituire un pericolo. Ma i genocidi sono frutto di scelte politiche prese da leader ed élite. Per prevenirli occorrerebbe, come ebbe a dire Václav Havel, il fondatore di Charta ’77 e poi presidente della Repubblica democratica della Cecoslovacchia dopo il crollo del comunismo, che “la comunità globale, e non gli Stati-nazione, fosse il luogo di sovranità e la sorgente della protezione dei diritti umani fondamentali”. Le cause della mancata protezione sono stati in genere individuati in questi aspetti: debolezza della convenzione sul genocidio (limiti della definizione e mancanza di indicazione precisa degli strumenti per la prevenzione); mancanza di analisi, e successiva reazione, ai segnali di avviso iniziali; mancanza di volontà politica e abuso del principio di sovranità per continuare a permettere le violazioni; fallimento del processo decisionale delle Nazioni Unite.

È sulla base di queste considerazioni che nel XXI secolo si è andato precisando un nuovo modello, fondato su quella che è stata chiamata la Responsabilità di proteggere, un approccio diverso rispetto al diritto di essere protetti perché presuppone un approccio più attivo. La R2P è un obbligo morale, sulla base dei bisogni e della volontà di chi è colpito; è l’obbligo di reagire, di prevenire e di ricostruire. La R2P deve avere solo finalità umanitarie, non può servire interessi politico-economici. Anche se abbiamo visto come in molti casi un intervento di carattere umanitario (la Libia è l’ultimo e il più chiaro esempio) si sia poi trasformato in qualcos’altro, per cui mancava in ogni modo qualsiasi progetto, proposta, strategia.

Il principio in base al quale se un governo non è in grado di proteggere i propri cittadini, magari discriminandone o reprimendone una parte, a quel punto è possibile e doveroso l’intervento della comunità internazionale per difendere i cittadini, che sembrava essere condiviso all’incirca dieci anni fa, oggi sembra essere stato dimenticato, e pare che si sia tornati ad accettare che in ogni Paese vi sia da parte del governo la sovranità a fare quello che vuole nei confronti dei propri cittadini.

In una situazione internazionale caratterizzata dal rafforzamento del potere di autocrati come Putin in Russia e Erdogan in Turchia, e dal prossimo governo Trump negli Stati Uniti, non è possibile indulgere all’ottimismo, perché diventa sempre più chiaro che solo una realpolitk guidata dai propri interessi statali sarà alla base del tentativo di affrontare e risolvere le crisi politiche, i conflitti e le crisi umanitarie che sono in corso. Proprio per questo, tuttavia, è necessario che le numerose e crescenti forze che in tutte le società si battono per la difesa dei diritti e di chi se li vede violati continuino ad affrontare il tema della prevenzione approfondendo l’analisi di cosa è successo in passato e mettendo a punto ipotesi di comportamento e di intervento che si basino sull’esperienza più che su modelli predeterminati.

In Italia un problema più acuto che in altri Paesi è la scarsa presenza e diffusione delle informazioni più elementari; abbiamo, come società nel suo complesso, un livello di conoscenza particolarmente basso, che non permette di interagire con il nostro governo e con le dinamiche europee e internazionali e favorisce, invece, l’accodarsi a prese di posizione spesso ideologiche e poco fondate sui problemi effettivamente presenti nelle aree di crisi. È in quest’ottica che si muove questa iniziativa che inizia oggi, con la consapevolezza di non poter dare risposte chiare ed esaurienti – che tutti vediamo estremamente difficili, oggi più di ieri – ma solo di poter far crescere l’informazione e la consapevolezza, tappa indispensabile per una più diretta e cosciente partecipazione.

Marcello Flores

Analisi di Marcello Flores, storico

17 gennaio 2017

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