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Riconoscere i segnali di genocidio

una mappa per prevenire nuove atrocità

Dall’Olocausto, dai genocidi in Darfur, Bosnia e Rwanda abbiamo imparato a riconoscere i segnali di allarme che precedono le atrocità di massa.

Nel corso degli anni, la giustizia internazionale e le organizzazioni non governative hanno dato vita a diversi programmi per la prevenzione dei genocidi, destinati ai governi, alle realtà nazionali e alla società civile. È tuttavia al Museo dell’Olocausto di Washington che si deve la creazione di un progetto multimediale pensato per prevedere il rischio di uccisioni di massa.

Questo strumento, elaborato dal Simon Skjodt Center for the Prevention of Genocide, traccia tutti i segnali di una possibile violenza contro le minoranze all’interno di ogni Stato ed elabora una stima annuale del rischio nei vari Paesi, basandosi su una serie di modelli e indicatori ideati da scienziati politici ed esperti regionali. L’obiettivo è quello di creare uno strumento utile a governi, policy maker, gruppi di pressione e studiosi per individuare le aree in cui concentrare gli sforzi e prevenire nuovi genocidi.

“Tenere traccia in tutto il mondo degli indicatori che abbiamo stabilito per un Paese a rischio - ha dichiarato Cameron Hudson, direttore del Simon Skjodt Center for the Prevention of Genocide - permetterà di implementare politiche più mirate, economiche ed efficaci in grado di prevenire violenze di massa”.

Se già sono presenti delle watch list private, utilizzate dei governi per il monitoraggio delle violenze, fino ad oggi sono stati pochi i tentativi - al di là di quelli portati avanti da piccoli gruppi - di creare un sistema accessibile al pubblico. Questo strumento, invece, è disponibile online ed è in grado di combinare le stime del rischio statistico basate su dati scientifici raccolti in oltre 50 anni e le analisi di 100 esperti di particolari regioni.
A completare il tutto vi è poi un blog, in cui vengono presentate nel dettaglio le situazioni dei Paesi analizzati.

Il progetto, appena presentato, è stato testato per due anni, e ha identificato una lista dei Paesi a maggior rischio genocidio.
In testa troviamo il Myanmar, seguito da Nigeria, Sudan, Egitto, Repubblica Centrafricana, Sud Sudan, Afghanistan, Pakistan, Somalia e Congo, Paesi in cui sono presenti forme di conflitti civili che coinvolgono il governo e gruppi ribelli, spesso perpetrati su basi etniche.

Non stupisce che a guidare la lista sia la Birmania, dove da anni la minoranza musulmana dei Rohingya - il “popolo senza Stato” della regione del Rakhine - è oggetto di forti discriminazioni da parte del governo. Non essendo ufficialmente riconosciuti come gruppo etnico del Paese, i Rohingya devono infatti ottenere un permesso speciale per sposarsi e viaggiare - anche per cercare lavoro o commerciare, recarsi dal medico o partecipare a un funerale -, sono costretti al lavoro forzato, affrontano arresti arbitrari, confische di beni, tassazione discriminante, violenza fisica e psicologica.
Tenendo conto di questo aspetto, della difficile transizione democratica e dell’assenza di un movimento a sostegno di questa minoranza all’interno del Paese - che a novembre sarà chiamato alle urne per le elezioni presidenziali -, il Simon Skjodt Center for the Prevention of Genocide ha calcolato per la Birmania un rischio genocidio del 13,2%.

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