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Il rebus bosniaco

tra nuovi equilibri e vecchie tensioni

Dopo il referendum del 25 settembre e le elezioni amministrative del 2 ottobre, in Bosnia la convivenza tra serbi, croati e musulmani è sempre più difficile.
Nessuno forse vuole una nuova guerra, ma nel Paese si alimentano sentimenti separatisti e vecchi rancori etnici.

A urne appena chiuse, con ancora i voti a distanza e quelli via posta - fra i quali solitamente predominano i musulmani, rifugiati che sono fuggiti durante la guerra - da scrutinare, era stata subito annunciata la vittoria dei partiti e dei candidati filoserbi. Nella stessa Srebrenica, città dell’enclave serbo bosniaca e teatro l’11 luglio 1995 del genocidio condotto dai soldati di Ratko Mladic, per la prima volta dopo il conflitto veniva dato per vincitore un sindaco serbo, Mladen Grujicic.

I risultati hanno immediatamente generato un clima di tensione; la stessa sera, mentre si accendevano i festeggiamenti per il candidato serbo, la polizia interveniva per sedare i primi scontri. Dopo giorni di stallo nello spoglio dei voti, la commissione elettorale centrale ha deciso di subentrare nel conteggio delle schede, trasportando le urne a Sarajevo.

Se non si può parlare di nuovi conflitti, sicuramente siamo di fronte alla rinascita di estremismi alimentati da diversi fattori.

Innanzitutto le tensioni già riaccese dal referendum del 25 settembre, che ha istituito - nonostante l’Alta Corte di Bosnia ed Erzegovina avesse dichiarato inammissibile il quesito - il 9 gennaio come festa nazionale della Repubblica Srpska, celebrando la decisione presa nel 1992 dai parlamentari serbi di proclamare unilateralmente la Repubblica serba di Bosnia.

Il clima di frammentazione risente anche della pubblicazione dei dati del censimento del 2013 - il primo dopo il conflitto - che hanno visto l’aumento della popolazione bosniaco musulmana dal 43 al 50%, un sostanziale stallo della popolazione serba, che dal 31 oggi è al 30,8%, e la diminuzione della parte croata dal 17 al 15,4%. Questi dati, se letti considerando che gli accordi di Dayton prevedono per il Paese una presidenza tripartita che deve decidere all’unanimità, possono far presagire un cambiamento dei rapporti all’interno del Paese e una conseguente messa in discussione del sistema di Dayotn.

Oltre all’elezione del primo sindaco serbo a Srebrenica, un altro dato fa temere il risorgere di nazionalismi mai sopiti: l’elezione, in un’altra cittadina, di Fikret Abdic, ex criminale di guerra che ha scontato dieci anni proprio per i crimini commessi durante la pulizia etnica. Questo mostra il fallimento non solo dell’impalcatura di Dayotn, ma anche della narrazione storica comune che il Tribunale penale internazionale per la ex Jugoslavia ha cercato di costruire in questi anni.
Di fronte alle sentenze - come nel caso dell’assoluzione dei generali croati Gotovina e Markac, criminali di guerra per i serbi, eroi nazionali per i croati - abbiamo assistito al riaccendersi dei nazionalismi e alla crescita di un sentimento di insofferenza nei confronti della giustizia internazionale.

Giustizia internazionale che oggi è ancora al centro della discussione sul genocidio di Srebrenica. Non solo in Bosnia, dove le Madri di Srebrenica hanno avviato l’appello contro la sentenza emessa nel 2014 ai danni dell’Olanda, per chiedere che il Paese venga riconosciuto colpevole di non aver protetto non solo i 300 musulmani che avevano cercato rifugio presso il compound del contingente Onu a Potocari, ma tutti gli oltre 7mila uomini uccisi l’11 luglio 1995. Il “caso Srebrenica” è infatti rimbalzato anche nella stessa Olanda, dove una parte del Dutchtbat - il battaglione olandese di caschi blu che operava sul territorio - ha avviato una causa collettiva contro il Ministero della difesa del Paese. I militari starebbero valutando di fare causa allo Stato - per ridimensionare le proprie responsabilità nel conflitto - dopo che le autorità di Amsterdam hanno ammesso di aver inviato il contingente in Bosnia negli anni ’90 con una “missione impossibile”.
Prima di intraprendere le vie legali, i militari tenteranno la via della conciliazione con il governo. Il tema, tuttavia, resta molto delicato, soprattutto dopo la sentenza della Corte europea dei diritti dell’uomo dello scorso settembre, che ha stabilito in ultima istanza che il comandante del Dutchbat “non deve essere processato per Srebrenica e il comportamento dei caschi blu”. 

10 ottobre 2016

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