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Giornata della memoria: quando alcuni arabi e musulmani scelsero di essere “Giusti”

di Massimo Ronzani.

La cupola del Memoriale dell’Olocausto, nello Yad Vashem di Gerusalemme.

La cupola del Memoriale dell’Olocausto, nello Yad Vashem di Gerusalemme.

Proponiamo di seguito l'articolo dello studioso di Medio Oriente Massimo Ronzani pubblicato su Mentepolitica. In occasione del Giorno della Memoria, l’autore ci ricorda l'importanza di onorare come Giusti anche tutti gli arabi e i musulmani che si sono impegnati per salvare gli ebrei dalle persecuzioni nazi-fasciste, nonostante le differenze culturali e religiose. Troppo spesso le loro gesta sono state dimenticate.

Non è molto noto che tra i 26.000 "Giusti tra le Nazioni", onorificenza conferita dallo Yad Vashem di Gerusalemme, ci siano una settantina di musulmani. Tra questi la maggior parte è di nazionalità albanese o bosniaca, ma vi compaiono un turco, un persiano ed al novembre 2017, pure un egiziano. Se quindi la presenza di musulmani "Giusti" è un fatto constatato, la recente onorificenza conferita al primo arabo merita una particolare riflessione.

Di "Giusti dell’Islam", ma soprattutto di "arabi Giusti", si è cominciato a parlare dopo l’11 settembre 2001, grazie a storici e studiosi, spesso di origini arabe o ebraiche, sensibili ai temi di studi medio orientali. È il caso dello scrittore Robert Satloff, americano di origini ebraiche, il quale si impegnò per ben cinque anni in ricerche sul campo. Nel suo celebre libro "Among the Righteous: Lost Stories from the Holocaust’s Long Reach into Arab Lands" (2006), l’autore ha riportato alla luce storie semisconosciute di arabi e musulmani che rischiarono la propria vita per salvare alcuni ebrei in Europa e Nord Africa. Storie poco conosciute di funzionari, imprenditori, arabi e musulmani che, nonostante un credo e culture diverse, scelsero liberamente cosa fare quando ogni morale umana cadeva sotto i colpi della follia nazi-fascista. Un orrore per certi versi simile a quello di Al-Qaeda.

Tra i più noti “Giusti musulmani” vi è Selahattin Ulkumen, il console turco a Rodi che salvò una cinquantina di ebrei connazionali, ma anche greci ed italiani, dai rastrellamenti nazisti. Nonostante la minaccia dello scoppio di un caso diplomatico internazionale, il funzionario fu messo agli arresti ed infine deportato nel Pireo, dove restò prigioniero fino alla fine della guerra. Il docufilm "The Turkish Passport" (2012) approfondisce questa storia e quella di altri funzionari turchi, come il console a Marsiglia Necdent Kent, che in tutta Europa arrivarono a togliere dai treni nazisti centinaia di ebrei turchi e di altre nazionalità, falsificando i documenti, per poi caricarli su appositi treni della salvezza diretti ad Istanbul.

La storia del "Giusto" Abdol Hossein Sardari è geniale. A Parigi, il console persiano sfruttò le proprie competenze giuridiche e le simpatie naziste per salvare mille ebrei connazionali e altrettanti mille ebrei di diverse nazionalità. Sardari sbatté in faccia alla Gestapo un editto del 538 a.C. e convinse gli aguzzini che gli ebrei persiani erano discendenti di una setta convertita, tutelata da Ciro il Grande e per questo motivo erano da considerare ariani. La colta argomentazione mise alle strette le autorità naziste, tanto che il caso arrivò ad Eichmann, ma egli non poté fare altro che constatare la fuga dei duemila ebrei.

Il caso più recente di “Giusto” è quello di Mohamed Helby. Il medico egiziano musulmano residente a Berlino, che salvò la paziente ebrea Anna Boros e la sua famiglia, ospitandoli nel suo studio medico dove non poteva esercitare la professione a causa delle leggi razziali e spacciandoli per suoi parenti di Dresda. Nel novembre scorso, la cerimonia per l’assegnazione dell’onorificenza avvenuta a Berlino (non a Gerusalemme!), è stata l’occasione per Ofer Aderet, giornalista israeliano di Haaretz, di porre ancora una volta la questione del perché fin ora solo un arabo è considerato “Giusto”.

Prima di tutto è innegabile che gli studi sull’Olocausto ebraico abbiano avuto fino ad oggi un chiaro stampo eurocentrico, in quanto la ricerca storiografica si è dedicata alle testimonianze degli "ebrei europei" durante l’occupazione nazi-fascista del vecchio continente. Gli stessi studi hanno prestato meno attenzione agli ebrei "non europei" e alle comunità ebraiche presenti nei territori nord africani occupati o Vichy (Algeria e Marocco fino al novembre 1942), o dai nazifascisti (Tunisia fino al maggio 1943). Le comunità ebraiche "non europee", meno numerose rispetto a quelle presenti nel vecchio continente, ma pur sempre colpite in uguale misura dall’antisemitismo, infoltivano le rispettive comunità di connazionali a maggioranza musulmana. Questi migranti residenti soprattutto in Francia, provenivano da Paesi islamici dove le antiche minoranze ebraiche convivevano in discreti rapporti con la maggioranza musulmana, secondo le leggi del diritto islamico. Tuttavia nei Paesi maghrebini gli ebrei soffrirono l’imposizione delle leggi razziali tanto quanto gli ebrei europei. Inoltre, è importante constatare che nei confronti degli ebrei, la maggior parte della popolazione araba e musulmana, sia in Europa, sia nel Nord Africa, non si comportò in modo diverso dalla maggioranza della popolazione del vecchio continente.

Nella Tunisia occupata dalle truppe dell’Asse, dal novembre 1942 al maggio 1943, furono deportati nei campi di lavoro cinquemila ebrei; una quarantina di essi vi morì, mentre un centinaio fu internato in Europa. Gli ebrei algerini furono vittime a più riprese dell’antisemitismo proveniente dalla madre patria; molti parteciparono attivamente alla Resistenza e alcuni finirono in campi di prigionia fino alla liberazione del paese. Andò meglio agli ebrei marocchini: essi furono colpiti dalle leggi razziali imposte da Vichy, ma vennero protetti dal re Mohammed V e dalla stessa popolazione. Qualcosa di simile successe in Albania, dove la popolazione musulmana (e cristiana) nascose tutti i connazionali ebrei (200 circa) e accolse 2000 ebrei balcanici nel nome dell’antico codice d’onore della “Besa”.

Se si guarda al Nord Africa e al Medio Oriente, ci si accorge che ancora oggi nelle scuole arabe la Shoah non viene studiata e gli eventi dedicati al tema sono quasi inesistenti. Questo perché per una parte consistente dell’opinione pubblica araba, la Shoah è vista come la causa principale della nascita di Israele e della tragedia arabo-palestinese. Perciò risulta scomodo e doloroso per un arabo musulmano rivendicare la protezione di ebrei, tanto meno parlare di ebrei o israeliani come vittime. Dall’altra parte, non sono pochi i discorsi israeliani che demonizzano gli arabi comparando l’antisionismo palestinese e musulmano con l’antisemitismo nazista. Un abuso politico della storia che sfrutta alla base le simpatie naziste del gran mufti di Gerusalemme, Amin al Husseini, e l’arruolamento volontario delle Waffen SS bosniache musulmane. Ai sostenitori di queste tesi basti rispondere che furono molto più numerosi gli arabi e musulmani arruolati nelle forze Alleate. Meno nota la storia del rettore della Grande Moschea di Parigi, l’imam Si Kaddour Ben Ghabrit, che nascose nella moschea dai 500 ai 1500 ebrei algerini (e non solo), spacciandoli per musulmani. La vicenda, già approfondita dagli studi di Satloff, è diventata ancora più famosa con l’uscita del film “Leshommeslibres” (2011).

Nonostante l’astio arabo-israeliano incoraggiato da molti schieramenti politici di entrambi i fronti, alcuni Paesi arabi hanno deciso di aprire delle piccole porte al dibattito pubblico sulla Shoah: nel settembre 2011, l’Università Al-Akhawayn di Ifrane (Marocco) organizzò la prima conferenza del mondo arabo sulla Shoah, dove si rese omaggio anche al re Mohammed V; nell’aprile 2014, il presidente Abu Mazen, in passato autore di una tesi di dottorato negazionista, definì pubblicamente la tragedia come “il crimine più odioso contro umanità”; nel luglio 2016, l’ambasciata italiana a Tunisi ha aperto il primo “Giardino dei Giusti” in un paese arabo, dove un albero ricorda l’imprenditore tunisino musulmano Khaled Abdul Wahab, che nascose Odette Boukhris, la sua famiglia ed una dozzina di ebrei tunisini con modalità simili a Schindler. Le candidature di Mohammed V, di Khaled e dell’imam di Parigi come “giusti”, caldamente proposte da studiosi come Satloff e da diversi istituti, procedono a rilento e sono accompagnate spesso da resistenze, per non dire polemiche.

Queste sono solo alcune delle testimonianze più famose, in attesa che altre storie di “arabi Giusti” vengano fuori dalle sabbie del deserto. In tempi in cui l’intolleranza ed il terrorismo fondamentalista occupano la quotidianità, si fa sempre più necessario dimostrare in giornate come quella dedicata alla Memoria, che ci sono state persone “giuste”, e continuano ad esserci, capaci di aiutare il prossimo in difficoltà, nel nome di quei principi etici che dovrebbero appartenere ad ognuno di noi. Semplici atti di gentilezza umana che superano qualsiasi diversità e sfidano l’oscurità.

30 gennaio 2018

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