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Il ritrattista di Auschwitz

l'uomo che mise in salvo le foto dell'orrore

Wilhelm Brasse era un uomo esemplare. Nacque il 3 dicembre 1917 a Żywiec da madre polacca e padre austriaco. Da ragazzo lavorava in un negozio di fotografia di proprietà di una zia a Katowice. Quando i nazisti invasero la Polonia, lui si rifiutò di aderire al regime. Fu prima imprigionato per tre mesi, poi, poiché si rifiutava di giurare fedeltà a Hitler e osò perfino cercare di espatriare, fu deportato ad Auschwitz. Qui ebbe un trattamento di favore rispetto agli altri prigionieri perché le SS lo avevano assegnato a fare le foto segnaletiche agli internati e forse perché era “ariano”. Chi visita oggi il museo del lager vede le sue foto appese alle pareti. Sono foto che colpiscono perché a volte ritraggono diversi membri di una stessa famiglia, a volte mostrano soggetti terrorizzati o emaciati, altre volte ancora mostrano bambini e bambine. All’ingresso del campo venivano fotografate le persone che sarebbero state adibite al lavoro forzato, non quelle che andavano subito a morire. Brasse dovette fotografare anche i minorenni, compresi quelli sottoposti agli esperimenti "scientifici" di Mengele. 

Era un ritrattista fenomenale, come dimostra anche il film testimonianza uscito dopo la sua morte, The Portraitist, che è andato in onda qualche anno fa alla tv pubblica polacca e di cui ho trovato una copia quest’estate al museo del lager di Auschwitz. Aveva una profonda conoscenza della luce, della psicologia dei soggetti e dei crudeli committenti, dell’attrezzatura più moderna, dei riflettori, etc. Ma soprattutto aveva un’etica. 

Brasse cercò sempre di offrire un tozzo di pane della sua razione alle persone che doveva fotografare, spesso prima che fossero inviate nelle camere a gas. Se un internato gli chiedeva di rifare la foto, magari per tentare di sfuggire alla selezione, non esitava a escogitare uno stratagemma, ad esempio fingere che qualche immagine fosse venuta male e rifarla. Una volta lo venne a trovare una donna delle SS, che prima si fece commissionare un servizio a seno nudo e poco dopo si tolse la vita per essersi invischiata nel piano genocida di Hitler. Quando doveva fotografare i minori, cercava di farlo con delicatezza, senza toccarli o metterli in imbarazzo, nonostante i nazisti pretendessero foto in pose oscene e degradanti.

Nel documentario del 2005 diretto da Irek Dobrowolski, Brasse racconta la sua attività di fotografo ad Auschwitz con lucidità, a volte commuovendosi, sempre con un eloquio preciso e una mente rimasta integra nonostante l’esperienza dell’indicibile. Forse perché la fotografia è terapeutica, forse perché era lui una persona forte, capace di gesti generosi e di compassione, gli era rimasta la capacità di denunciare il male lasciando sempre un filo di speranza. Brasse è morto l’anno scorso a 94 anni. Dopo la guerra ha tentato di tornare alla fotografia, ma non è più riuscito, perché gli tornavano alla mente le immagini degli uomini e soprattutto delle donne che è stato costretto a fotografare. Al termine del conflitto, con i nazisti in fuga, rischiò la vita per mettere in salvo oltre 40.000 immagini scattate, in modo tale che servissero da prova contro i criminali autori della Shoah. È vissuto facendo il salumiere, stando accanto alla famiglia che gli ha dato due figli e cinque nipoti e accettando di testimoniare l’orrore di cui era stato testimone nel corso di interviste, portando gli studenti a visitare il lager e parlando nelle scuole. 






Quando vediamo un’immagine di una tragedia umanitaria, non dovremmo sistematicamente pensare che qualche potere occulto ci stia manipolando. Non tutto quello che passa nelle redazioni verosimilmente è reportage. Neanche il reportage a volte è reportage. Nel caso di Brasse lui cercava di fare il reportage mentre i nazisti prima volevano schedare le loro vittime, poi volevano umiliare e mostrare quel che erano capaci di fare ai loro corpi e alle loro menti, e infine volevano distruggere tutto il materiale che poteva rivelare al mondo l’orrore di cui si erano macchiati. Ma quell’orrore non ha uno schieramento o un fine. È sopravvissuto ai nazisti per trasmetterci un messaggio di umanità: cercare di fare tutto quanto in nostro potere per fare sì che l’umanità non sprofondi più nel baratro dello sterminio, prevenire i genocidi, lottare contro le nostre stesse pulsioni violente e i nostri stessi pregiudizi. 

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