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L'ultimo nero sopravvissuto ai campi di lavoro nazisti

storia di Michael Theodor Wonja

Definito dai nazionalsocialisti "senza patria di tipo negroide", Theodor Michael Wonja, di madre tedesca e padre camerunense, è oggi l'unico sopravvissuto dei neri che subirono la violenza hitleriana dovuta alle teorie naziste sulla presunta superiorità della "razza ariana". Il giornale francese Le Monde l'ha intervistato il 13 maggio 2018, ricostruendo una difficile storia di razzismo. 

Theodor Michael Wonja, 93 anni, si ricorda tutto. Dal suo ufficio di Colonia, che ospita una grande biblioteca, racconta al giornalista Pierre Lépidi i numerosi rifiuti che ha subito prima, durante e dopo il Terzo Reich. Dopo la Prima guerra mondiale, suo padre, proveniente dal Camerun, allora colonia tedesca, per cavarsela nella grande crisi economica che aveva colpito la Germania lavorava allo zoo, mettendo in scena "esibizioni di indigeni africani". "In questi spettacoli, che erano una delle rare occasioni per guadagnare dei soldi in quel periodo, precluse ai borghesi, andavano in scena africani rappresentati secondo la visione che ne avevano gli europei degli anni '20 e '30, vale a dire come indigeni ignoranti, incolti, vestiti con una tutina di raffia", racconta Wonja. I visitatori qualche volta facevano mettere una mano dentro la gabbia ai loro bambini, per toccare la pelle e i capelli degli africani. Era presente anche il piccolo Theodor, schernito dagli altri bambini tedeschi.

Nel 1929, i servizi sociali decisero di affidare i figli della famiglia Michael Wonja a un orfanatrofio, oppure, come successe a Theodor, a un'altra famiglia. A 4 anni Michael fu affidato a Mohamed ben Ahmed, direttore di un circo marocchino. Maltrattato dalla sua nuova famiglia, ritrovò almeno la sorella Juliana. Girò la Germania e la Svizzera, dormendo ogni notte su un giaciglio di paglia sporco e contaminato dai vermi. A 9 anni apprese che suo padre era morto, rovinato dall'alcool.

Theodor Michael Wonja a questo punto cerca di evadere, quando può frequenta la scuola e soprattutto legge molto, "di tutto, compresi i reportage che trovava nei giornali svizzeri e che parlavano della Germania".

Adolf Hitler nell'inverno 1932-1933 abolì la disoccupazione e diventò cancelliere. Theodor sognava di far parte dello Jungvolk (il "popolo giovane" dei gruppi giovanili hitleriani), sia perché vi militavano i suoi compagni, sia perché vi si praticavano diversi sport, e lui era un corridore veloce. Venne soprannominato "Jesse Owens", come l'atleta nero che aveva vinto l'oro alle Olimpiadi di Berlino nel 1936. Tuttavia gli arrivò la prima doccia fredda: lo Jungvolk lo rifiutò perché fuori dai canoni per appartenere al "popolo"... figuriamoci al "giovane popolo"! Theodor visse una giornata molto triste, ma ancora non si rendeva conto di ciò che stava per accadere.

Secondo le "leggi di Norimberga", a 11 anni venne espulso dalla scuola in quanto "apatride di tipo negroide". A questo proposito Theodor dichiara durante l'intervista: "Quando si rifiuta a una persona l'accesso al sapere e all'educazione, gli si fa comprendere che si trova all'ultimo gradino dei cittadini dell'umanità. Io non sono mai riuscito a farmene una ragione. Che dolore! Ho capito che sarei sempre stato uno straniero nel mio Paese".

Dopo il 18 febbraio 1943, quando Goebbels parlò al Palazzo dello Sport istigando i tedeschi alla "guerra totale", arrivò la mobilitazione generale della popolazione. Theodor Michael Wonja venne convocato dall'esercito, ma, poiché "di tipo negroide", non venne accettato. L'uomo viveva una grande ambivalenza: da un lato la prospettiva dell'uniforme gli aveva dato l'illusione di potersi integrare, dall'altro era contento di non dover combattere per gente che lo detestava.

Fu inviato al campo di lavoro nazista di Adlergestell nel villaggio di Adlershof, un Fremdarbeiterlager (lager per lavoratori "stranieri"), dove incontrò internati di tutti i Paesi occupati dalla Germania, tra cui molti francesi adibiti al lavoro forzato. Nel campo lavorava 10 ore al giorno, poi portate a 12. Passava tutta la giornata a lavorare dei pezzi di ferro, senza sapere a che cosa fossero destinati. Viveva in una baracca infestata dai parassiti, con i tipici letti a castello dei lager. Pensava di fuggire, ma aveva dei tratti somatici che lo rendevano troppo riconoscibile. Veniva sempre umiliato e picchiato dalle guardie. "Avevo fame, sonno e freddo, e incombeva sempre su di me un pericolo permanente", ricorda. Sopportò il gelido inverno del 1944. Nell'aprile 1945, il campo fu liberato dai soldati dell'Armata Rossa. Theodor aveva 20 anni, nessun bagaglio, una grande voglia di libertà. Per lungo tempo rimase uno straniero nel suo stesso Paese, perfino sospettato di collaborazionismo, perché non si pensava possibile che fosse sopravvissuto in modo onesto. 

Nel dopoguerra fece dei lavoretti, si sposò, studiò Economia e Diritto all'Università di Amburgo e poi a Parigi. In seguito si stabilì a Colonia dove fondò Afrika-Bulletin («Il Bollettino dell'Africa»), di cui è redattore capo, con la missione di correggere l'immagine dell'Africa e degli africani nell'opinione pubblica tedesca. Viaggiò moltissimo sul Continente e a 50 anni visitò il Camerun, il Paese di suo padre. Al doganiere, che gli disse: "Lei ha qualcosa nel cognome che è camerunese, benvenuto!", l'ex deportato rispose: "Grazie signore, ma sono tedesco".

Nel 1971 il suo giornale chiuse per motivi economici. Theodor venne reclutato dal Ministero degli Esteri tedesco in qualità di specialista di questioni africane. In pensione dal 1987, si è occupato di un'altra sua passione, il teatro. A 80 anni ha scritto inoltre un'autobiografia.

Serge Bilé, autore del libro Noirs dans les camps nazis (Neri nei campi nazisti), l'ha incontrato per la prima volta nel 1994, e l'ha trovato infelice, abitato da un'immensa tristezza. Secondo Bilé, scrivere la sua storia significa farsi carico di una parte del suo fardello. Oggi Wonja dichiara "quando osservo la società, ci sono analogie con la Germania degli anni '30. Non dimentichiamo mai che Hitler fu eletto dal popolo... Inoltre siamo anche noi in un periodo di crisi in cui le persone vogliono costruire muri per proteggersi. Il razzismo è un'aberrazione. Per comprenderlo basta ammettere che dalla relazione tra un'eschimese e un aborigeno nascerà comunque un essere umano, qualunque sia il suo colore della pelle".

17 maggio 2018

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