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​Le frontiere chiuse dell'Europa prebellica

di Andreas Pieralli

Distribuzione del cibo nel campo profughi di Zbąszyńi sulla frontiera tedesco-polacca.

Distribuzione del cibo nel campo profughi di Zbąszyńi sulla frontiera tedesco-polacca. (Foto United States Holocaust Memorial Museum)

La storia ci offre spesso dei facili paralleli tra il presente e il passato, quasi come ci volesse avvertire che abbiamo sempre tempo per apprendere dai nostri errori. Checché se ne pensi dell'odierna emergenza sull'immigrazione, è difficile negare una forte somiglianza con gli eventi prebellici, quando migliaia di ebrei in tutta Europa si trovarono a vivere una situazione per alcuni aspetti simile a quella dei migranti che oggi fuggono da scenari di guerra come quello siriano, da regimi dittatoriali e sanguinari come l'ISIS o da Stati in via di collasso come la Libia. Parimenti gli ebrei di allora si trovarono a dover fronteggiare il pericolo di morire per mano della follia nazista.

Anche all'epoca l'Europa era da poco uscita da una crisi economica e sociale di proporzioni mai viste prima. E la seconda crisi finanziaria per grandezza l'abbiamo appena dolorosamente sperimentata. Molti degli Stati ai quali gli ebrei guardavano con speranza posero limiti all'immigrazione, nonostante l'evidente pericolo che i rifugiati stavano correndo. In un articolo del settimanale ceco Respekt, Michal Frankl, storico e autore del libro Un rifugio insicuro. La Cecoslovacchia e i rifugiati dal nazismo 1933-1938, ripercorre alcuni tristi esempi di come reagirono i Paesi occidentali all'ondata migratoria provocata dal nazismo.

Tra l'11 e il 12 marzo 1938 - ricorda per esempio Frankl - subito dopo l'Anschluss dell'Austria da parte del Terzo Reich, un treno notturno arrivò da Vienna a Břeclav, sulla frontiera morava con l'Austria. Ma invece dell'agognata salvezza, una brutta sopresa attendeva i fuggitivi. Vennero fatti scendere e costretti a tornare indietro. Molti di loro finirono nei campi di concentramento. Aneddoti di questo tipo d'altra parte non furono casi isolati. Il rifiuto di aiutare i rifugiati accompagnò purtroppo l'arrivo degli ebrei che cercavano in Cecoslovacchia un rifugio. Non era solo un problema cecoslovacco. Gli storici infatti descrivono gli ostacoli che Stati Uniti, Gran Bretagna, Svizzera e altri Paesi ponevano negli anni '30 per fermare l'immigrazione nei propri territori. Grande scalpore fece la storia della nave St. Louis, che nella primavera del 1939 arrivò fino alle coste americane con a bordo 937 rifugiati. Né gli Stati Uniti né Cuba permisero ai passeggeri di attraccare e scendere. Tornati in Europa parte di loro non sopravvisse all'Olocausto.

Se da una parte a livello internazionale la maggior parte dei Paesi cercava di affrontare la situazione rilasciando dei visti, la Cecoslovacchia respingeva questa soluzione temendo ritorsioni da parte della Germania. Nell'estate del 1938 la comunità diplomatica internazionale cercò alla conferenza di Evian, in Svizzera, di redistribuire i rifugiati tra i singoli Paesi. Ma il risultato fu che i Paesi partecipanti (fatte alcune eccezioni non significative) confermarono solo la politica delle frontiere chiuse. Spesso gli argomenti addotti erano molto simili a quelli usati ancora oggi: la sovrappopolazione e la crisi economica. E proprio come oggi, il rifiuto si basava spesso sui pregiudizi e gli stereotipi che dipingevano gli ebrei orientali come non assimilabili, sporchi e criminali. Già prima della prima guerra mondiale la stampa e i politici li tacciavano di essere il contrario dei cittadini per bene. Con l'avvicinarsi poi della guerra crebbe costantemente la propaganda di odio e chiusura.

A sostenere queste posizioni non erano soltanto gli antisemiti. Ad esemio il liberale Ferdinan Peroutka, il più grande giornalista ceco, sosteneva che "Nessuna umanità al mondo può imporre che nel proprio paese debba soffrire la fame un ceco piuttosto che un rifugiato tedesco o ebreo che è stato fino a poco disposto a condividere il destino del popolo tedesco." La retorica è simile in modo impressionante a quella odierna: da un lato i motivi economici, dall'altro quelli di un redivivo e quanto mai pericoloso nazionalismo.

Ancora una volta l'umanità sembra incapace di fare tesoro delle lezioni dolorose del proprio passato.

Andreas Pieralli, giornalista e traduttore

22 ottobre 2015

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