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Memoria inclusiva e memoria esclusiva

di Stefano Levi Della Torre

“È possibile prevenire le atrocità di massa [sigla: MAS]? Sì, ma con grande difficoltà”, si tratta di “evitare o almeno ridurre le MAS”. Con questa domanda e relativa risposta Yehuda Bauer ha aperto il suo discorso [alla Open University of Israel di Ra’anana, ndr], senza illusioni ma senza rassegnazione. La difficoltà è dimostrata dal fatto che le atrocità di massa si sono sempre verificate nella storia, stanno avvenendo, e non può che essere illusione che non si ripetano; eppure qualcosa si può e si deve fare, quanto meno per ridurne la portata e le conseguenze.

Il dicorso di Bauer, cioè di un anziano e autorevole sostenitore dell’“unicità della Shoà”, rappresenta una svolta importante nel declinare l’idea dell’ “unicità”. Già il termine adottato, “atrocità di massa”, indica l’intenzione di aprire l’“unicità” a una generalizzazione.

Che la Shoà sia un caso unico e inedito è un fatto: per dimensione, intensità, organizzazione logistica continentale delle deportazioni e reclusioni, per la riduzione in schiavitù e a cavie sperimentali dei destinati allo sterminio, per la razionalità tecnologica e l’organizzazione burocratica volte alla strage, per lo zelo ideologico e il conformismo che hanno ispirato i carnefici e il coro del consenso, della paura o dell’indifferenza che ha facilitato la loro azione. Molti di questi caratteri sono presenti in altre atrocità di massa, ma la Shoà li ha raccolti e intensificati, fino alle camere a gas, in un unico sistema che tutte le riassume. Un sistema che – altro essenziale carattere dell’unicità – imperversa nel cuore di tenebra di un' Europa al culmine del suo sviluppo tecnico e culturale, e che divora una parte di se stessa in una sorta di autocannibalismo.

Tuttavia, la qualifica dell’ “unicità” può essere declinata in due direzioni diverse: o nel senso di sacralizzare la Shoà come un evento incomparabile con qualunque altro sterminio o genocidio, tanto che la sua memoria sia in gelosa competizione con quella di ogni altra atrocità di massa e ne riduca la portata; o al contrario nel senso che la memoria della Shoà possa valere come lente di ingrandimento (e non di rimpicciolimento) di altre atrocità, con essa confrontabili anche quando non siano equiparabili, ma di cui la Shoà rappresenta la tendenza al limite. Tanto nelle sue premesse quanto nei suoi esiti.

Il sionismo laico fondatore dello Stato di Israele si era posto come critica e alternativa radicale alla millenaria condizione diasporica dell’ebraismo, e imputava ad essa l’aver esposto gli ebrei d’Europa all’aggressione dell’antisemitismo e allo sterminio. La fondazione dello Stato di Israele era la risalita dalla Shoà in quanto esito catastrofico della diaspora. Nell’ottica del sionismo laico, c’era una responsabilità storica degli ebrei nel loro destino; mentre, quasi simmetricamente, nell’ottica del sionismo religioso preoccupato di giustificare Dio e il suo silenzio di fronte al genocidio del suo popolo, c’era una responsabilità del popolo stesso nelle trasgressioni religiose degli ebrei: in questo senso, nel senso di colpe religiose degli ebrei quali spiegazione della catastrofe, era giunto scandalosamente a pronunciarsi, all’inizio degli anni 2000, il capo politico e spirituale del partito religioso sefardita Shas, il gran rabbino sefardita Ovadia Yosef.

Nonostante queste imputazioni, laiche o religiose, volte agli ebrei stessi circa il loro destino – la “colpa” della diaspora; la “colpa” dell’infedeltà religiosa -, la Shoà non poteva comunque che collocarsi al centro dell’identità attuale degli ebrei e di Israele. Magari non immediatamente dopo la tragedia: lo Yad Vashem, il memoriale e archivio della Shoà è istituito nel 1953 e reso luogo e simbolo pubblico solo nel 1959, grazie a due deliberazioni successive della Knesset, il Parlamento di Israele.

Ora, il dibattito sull’ “unicità” ha via via acquisito un forte connotato politico.

La tesi dell’ “unicità” esclusiva della Shoà è diventata prerogativa della destra nazionalista israeliana ed ebraica: in quanto proclama l’unicità esclusiva degli ebrei come vittime dell’estremo, è piegata a giustificare ogni azione dei governi di Israele come “legittima difesa” preventiva, come diritto di prevaricare, in nome della sicurezza, i diritti del popolo palestinese e il diritto internazionale, che pure si è andato formando ispirandosi in gran parte a principi desunti dall’esperienza della Shoà.

In nome di questa interpretazione esclusiva dell’“unicità”, ogni ostilità palestinese verso l’occupazione israeliana viene equiparata alla minaccia estrema nazista. E con ciò si vuol tacitare ogni critica politica e morale alla colonizzazione israeliana dei territori occupati, e al sistematico contrasto a ogni occasione di trattativa e di compromesso di pace.

Di contro, coloro che considerano la memoria della Shoà come permanente allarme sulle atrocità di massa contro ogni gruppo umano da chiunque messe in atto, rifiutano questo sfregio strumentale della memoria esclusiva della Shoà: memoria inclusiva contro memoria esclusiva, universalismo e diritti umani contro la degenerazione nazionalistica della memoria. In questo senso si schiera il discorso di Yehuda Bauer.

“È la prima volta in 70 anni che in Israele discutiamo degli altri genocidi e che guardiamo alla Shoà con occhi diversi”, ha dichiarato Yair Auron, uno degli organizzatori del convegno di Ra’anana, indetto in commemorazione dello sterminio nel Ruanda degli anni novanta. È un’affermazione che mette in luce una svolta e l’aprirsi di un conflitto finora latente intorno alla memoria della Shoà.

Tutto ciò coinvolge la Giornata della Memoria che cade ogni 27 gennaio. La Shoà ne resta il fulcro: ciò che essa ha da insegnare non è soltanto il suo esito, ma sono i processi politici, ideologici, psicologici, i conformismi e gli interessi che hanno prodotto le condizioni del suo realizzarsi; sono anche la resistenza ad essa da parte di chi si è opposto e ha salvato vite, a sottolineare il fatto che sempre esiste qualche possibilità di agire. La scena dei carnefici, che ci può dare il sollievo di una nostra troppo facile indignazione, non deve coprire i retro-scena dei comportamenti umani che hanno consentito e accompagnato la persecuzione e la strage, perché sono soprattutto questi comportamenti, nella loro banalità, a rivelarci atteggiamenti e attitudini in cui possiamo riconoscere più facilmente qualcosa di “normale” e tuttavia attuale e allarmante, qualcosa anche di noi stessi, qualcosa che crea le condizioni di ogni atrocità di massa. La memoria della Shoà non è un monumento al passato che debba nascondere nel suo estremo accecante e nella sua unicità esclusiva ogni altro sterminio o genocidio, ma è invece un allarme permanente su quanto è successo e dunque può di nuovo succedere, su quanto di analogo sia successo e sta succedendo; qualcosa che non nasconda ma anzi faccia luce sulle atrocità di massa passate e in atto, rivelando insieme le possibilità, grandi o piccole, di resistervi.

Stefano Levi Della Torre

Analisi di Stefano Levi Della Torre, architetto, pittore e saggista

19 gennaio 2015

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