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Sotto il naso dei nazisti

la storia ritrovata di Emanuel Zima

Emanuel Zima

Emanuel Zima

Un semplice cittadino ceco, maggiordomo e manutentore che viveva a Budapest, durante la seconda guerra mondiale salvò tredici ebrei da morte certa. Un eroe dimenticato. Solo adesso, dopo tanti anni, un reporter slovacco ha ricordato le sue gesta.

Le facciate sgretolate dei palazzi sul corso principale di Budapest sembrano la scenografia di un film di guerra. Sembra quasi che dopo la guerra il tempo qui si sia fermato. Da queste parti ci dovrebbe essere l'ambasciata ceca. Finalmente vedo la bandiera ceca, l'unico edificio ristrutturato nella strada. Entro nella sala riccamente decorata del Centro ceco che si sta riempiendo velocemente. Intorno a me sento parlare ceco, slovacco, ungherese mentre curiosa guardo la foto in bianco e nero di un uomo anziano con i baffi folti proiettata sopra il podio. È il volto di Emanuel Zima. Questo dipendente dell'ambasciata cecoslovacca durante la seconda guerra mondiale salvò la vita a tredici rifugiati ebrei nascondendoli direttamente sotto il naso dei nazisti.

“Queste persone sono sopravvissute fino alla fine della guerra proprio qui, sotto i nostri piedi. Il signor Zima non ebbe paura e li aiutò,” spiega alle persone sedute in sala l'ambasciatore israeliano Ilan Mor. Tra di loro c'è anche il redattore della televisione slovacca Joj Martin Mozer che ha riscoperto l'incredibile storia rimasta nascosta per decine di anni.

Emanuel Zima nacque a Příbram nella Boemia centrale. Nel 1908 si trasferisce con la moglie a Budapest dove dopo un anno nasce il figlio Josef, seguito cinque anni più tardi da Ede. Accettavano tutti i lavori che trovavano. Emanuel lavorò come pasticciere, fornaio, cambiò diversi lavori fino a quando venne assunto dall'ambasciata cecoslovacca. Dal 1928 vi lavorò come maggiordomo e manutentore. Montava le mensole, cambiava le lampadine, riscaldava la caldaia. Non doveva esser certo facile riscaldare quel palazzo enorme. Il lussuoso palazzo fu costruito alla fine del XIX secolo per il conte Zichy, in realtà si tratta di due fabbricati collegati. Il conte aveva bisogno di molto spazio – non solo per la sua famiglia, ma soprattutto per la sua collezione di souvenir. Viaggiò in tutto il mondo portando a casa le curiosità più disparate: una tigre imbalsamata, dei vasi giapponesi o delle cassapanche dall'Asia. Ma negli anni '20 non c'era più nulla di tutto questo. Soltanto gli uffici per i diplomatici dove lavoravano quindici dipendenti tra il pian terreno e il primo piano.

“Il signor Zima era un buon uomo. Rimase con noi vent'anni,” lo ricordano i suoi ex colleghi. Ma nel marzo del 1939 l'idillio finì. Dopo che la Cecoslovacchia cessò praticamente di esistere l'ufficio tedesco per la propaganda sequestrò l'edificio. I tedeschi cacciarono tutti i dipendenti, ma lasciarono questo apparentemente “insignificante” signor Zima insieme al suo superiore. È soltanto un manutentore, avranno pensato, perché cercarne un altro... Il sessantenne Zima aveva ancora molto lavoro. Durante il giorno lavorava e la sera si prendeva cura della moglie malata. Il lavoro aumentava, poi Zima si ammalò e dovette subire un'operazione. Lo aiutò la dottoressa ebrea Mária Flamm. In cambio si scambiarono la promessa che in caso di bisogno si sarebbero aiutati a vicenda. Dopo qualche mese venne il momento del bisogno.

Nella primavera del 1944 in Ungheria cominciarono le deportazioni degli ebrei. Nel giro di dieci settimane 437.402 ebrei furono deportati ad Auschwitz. Mária Flamm e altre persone della comunità ebraica cercavano disperatamente aiuto. Lo trovarono là dove nessuno se lo sarebbe aspettato: da Emanuel Zima. Questo signore “invisibile”, cui nessuno faceva caso, gradualmente nascose nelle cantine dell'ex ambasciata tredici rifugiati ebrei.

Tra loro c'era anche Aron Grünhut, che all'epoca lavorava per l'amministrazione autonoma ebraica di Bratislava, ma nel 1944 fu costretto a scappare con la moglie in Ungheria. Arrivati a Budapest, attraverso vari contatti vennero a sapere di un maggiordomo che lavorava nell'ex ambasciata cecoslovacca. Si diedero appuntamento, ma quando arrivarono sul posto videro sulla facciata la croce uncinata.

“Perché mi avete fatto questo?” chiese Grünhut. “Io mi fidavo così tanto di lei!”

“Non abbiate paura, venite con me, non vi accadrà nulla,” rispose Zima.

Grünhut, la dottoressa di Zima e altre persone trascorsero diversi mesi nella cantina che aveva solo pochi metri quadrati. Zima portava loro il cibo e le medicine. Cercare gli alimenti era diventato per Zima sempre più difficile, e così iniziò ad aiutarlo suo figlio Josef. È solo grazie al loro aiuto che tutti riuscirono a sopravvivere fino alla fine della guerra.

Una scoperta casuale

Dopo la guerra, tre dei sopravvissuti si trasferirono in Israele dove negli anni '60 avviarono le pratiche per il riconoscimento di Giusto tra le Nazioni conferito dallo Yad Vashem, il memoriale dell'Olocausto. Ma nessuno della famiglia di Zima lo venne a sapere, e così la medaglia rimase nascosta per anni in un cassetto. Tutto è cambiato l'anno scorso quando, grazie ad una serie di coincidenze, il reporter televisivo Martin Mozer ha scoperto la storia da anni dimenticata.

“Da qualche tempo mi interesso dei destini dei ragazzi delle famiglie ebree ortodosse di Bratislava che grazie ai treni di Winton nel 1939 arrivarono in Inghilterra,” racconta. “Arrivati a Londra persero i contatti tra di loro. E così mi è venuto in mente di provare a cercarli. L'anno scorso ho trovato uno di loro in Israele. Si chiama Benny Grünhut.”

Suo padre fu proprio una delle persone salvate tanti anni prima da Emanuel Zima. Ma Benny non si ricordava del suo nome. A Mezer venne così in mente di cercare nell'archivio del Ministero degli Affari Esteri di Praga. All'inizio cercava uno slovacco, perché Benny era quasi sicuro che fosse slovacco. Dopo qualche settimana finalmente trovò l'elenco dei dipendenti dell'ambasciata. C'era un solo maggiordomo – il ceco Emanuel Zima. Piano piano Mozer iniziò a mettere insieme tutte le informazioni e scoprì che dopo la guerra Emanuel e Josef si trasferirono a Praga. Nessuno dei due è ancora vivo, e così l'unico indizio riportava a Budapest dove ci doveva essere ancora Ede. Ma come cercare qualcuno soltanto con il nome?

“Ho cercato praticamente in tutti gli archivi di Budapest, ma non c'era nessun Ede Zima. Ho contattato lo storico Pal Šalamon che lavora nel Centro di Ricerca sull'Olocausto di Budapest. Propose di cercare il nome nell'elenco telefonico. Abbiamo sfogliato tutti gli elenchi, anno dopo anno, ma niente. Alla fine abbiamo trovato Ede nell'elenco del 1952. Ma quando siamo arrivati all'indirizzo indicato ci aspettava una brutta sorpresa. Quell'edificio era stato demolito tanto tempo prima,” racconta il reporter.

Sperava ancora che qualcosa sarebbe venuto fuori. Tornò negli archivi dove trovò un altro indirizzo – questa volta del 1963. Via Thököly. Era un condominio costruito per i dipendenti dell'ambasciata cecoslovacca. Sui campanelli notò il nome Ildikò Belics, accanto in lettere piccole c'era scritto Zima. Questa volta andava a colpo sicuro. Suonò ma nessuno rispose. Provò i vicini fino a quando uno aprì e gli diede il numero di Ildikò Belics.

“Quando la chiamai era scioccata, non si aspettava minimamente che il suo bisnonno avesse fatto qualcosa di così coraggioso. In quel momento la signora era in vacanza, e così mi incontrai con suo fratello Miklòs a Budapest,” dice Mozer.

Miklòs sapeva di avere dei parenti a Praga, a volte lo zio Josef veniva a trovarli ma non aveva mai detto di aver aiutato qualcuno durante la guerra. Il timido quarantenne adesso sta nel centro del podio nell'edificio dove il suo bisnonno salvò la vita a tredici persone. Si guarda intorno un po' imbarazzato, non è abituato ad essere al centro dell'attenzione.

“La vita di Miklòs è cambiata,” dice il reporter. “Per lui è un regalo splendido ricevuto dai suoi antenati. È molto orgoglioso di loro, ma al tempo stesso sente una certa responsabilità per quello che i suoi parenti riuscirono a fare.”

Ma perché nessuno ha mai provato a cercare Zima o i suoi parenti? Perché ci sono voluti sessant'anni?

“Naturalmente i ricercatori dello Yad Vashem ci avevano provato negli anni '60, ma senza riuscirci. Non doveva essere certo facile mettersi in contatto con qualcuno in Cecoslovacchia o in Ungheria. Parliamo di un'epoca quando la maggior parte degli archivi era inaccessibile agli stranieri,” spiega Mozer.

La medaglia per Zima venne così depositata nell'archivio e per anni non è successo più nulla. Nel 1995 ci fu un altro tentativo, ma solo Mozer ebbe successo nella sua ricerca.

“Non appena abbiamo scoperto che la famiglia di Zima vive a Budapest ho scritto subito allo Yad Vashem. Da una parte la presero come una complicazione dato che per loro era un caso già chiuso, e ora questo... Gli mandai tutti i documenti che provavano la parentela di Miklòs, dopodiché iniziò un processò che durò vari mesi. Forse correggeranno anche quell'errore insensato. Zima infatti è iscritto nell'elenco degli slovacchi che aiutarono gli ebrei, ma è una sciocchezza dato che era ceco. In ogni caso sono felice che l'intero caso sia stato chiuso. L'anno scorso ho girato un piccolo reportage, e con questo il mio lavoro è finito.”

Tenere la bocca chiusa

Il giorno seguente vado nella periferia di Budapest. Una casetta con un giardino semplice, i giocattoli sparsi per il salotto. Al tavolo è seduto Miklòs che cerca di ripescare qualcosa dalla memoria. Si vede che vorrebbe saperne di più.

“Nella nostra famiglia siamo sempre stati orgogliosi di essere cechi,” racconta. “Molte nostre storie sono legate all'ambasciata ceca. Lì lavoravano il mio bisnonno Emanuel, lo zio Josef e mio nonno Ede. Quest'ultimo ci lavorò fino al 1971. Ma negli anni '80 perdemmo i contatti con i parenti cechi.”

Quando l'anno scorso lo chiamò Martin Mozer fu per lui una grande sorpresa. Anche se, come racconta, in qualche modo gli sembrò logico. Sia Emanuel che Josef erano due persone molto buone, erano in grado di risolvere qualsiasi problema con grande calma.

“Quando i tedeschi vinsero in Francia, a Emanuel fu ordinato di appendere sull'edificio dell'ambasciata la bandiera tedesca,” racconta. “E così andò e la issò, ma lo fece al contrario, l'aquila tedesca aveva il becco verso il basso... I tedeschi lo sgridarono subito. Ma lui reagì con calma, dentro di sé pensava “Anche voi presto avrete il becco a terra.” Era capace di controllarsi e di tenere la bocca chiusa. Questo certamente lo aiutò. Doveva essere molto difficile organizzare l'aiuto per così tante persone. Bastava una parola di troppo e tutto sarebbe venuto fuori.”

Inizialmente Miklòs non si rese conto di quale importante riconoscimento fosse stato conferito ai suoi parenti, dovette cercare le informazioni su Internet mettendo su Google il nome di Emanuel e Josef.

“Fu una sensazione strana, vedere i propri parenti sull'elenco degli eroi,” spiega. “Mi dispiace che non abbiano saputo di questo riconoscimento, ne sarebbero stati sicuramente felici. Solo sul web ho scoperto quello che accadde qui durante la guerra. Non avevo la più pallida idea di quello che soffrirono gli ebrei in Ungheria. Ho frequentato la scuola negli anni '80 e nessuno ci aveva detto delle deportazioni. Solo adesso mi rendo conto di quanto furono coraggiosi e di quanto abbiano rischiato. Ho provato a spiegarlo ai miei figli. Ma sono dei ragazzini, non gli interessa. Ma ieri, durante la cerimonia, hanno cominciato a fare delle domande. È stata la prima volta che si sono interessati alla storia della nostra famiglia.”

Articolo pubblicato sul quotidiano ceco Lidové noviny il 7.3.2014, pubblicato su Gariwo con il consenso dell'autrice e del quotidiano.

29 ottobre 2015

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