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"Sum Ebreu Che Scapum"

racconto di una famiglia sopravvissuta

La casa dove i Luzzati hanno speso la loro prima notte in fuga ad Estoul

La casa dove i Luzzati hanno speso la loro prima notte in fuga ad Estoul

Ci sono notti buie di paura. Nelle quali scappi nel bosco senza vera cognizione, per andare. Veloce, più veloce. I tedeschi risalgono la valle e bisogna mettersi in salvo. Notti con una sola, vera domanda. Cuore sospeso. E labbra incollate. Notti di fiato corto e affanno pesante, risalendo la montagna in fretta, allungando il passo sempre di più, sempre più velocemente, per macinare distanza dalla minaccia. Ci sono notti che prendono per mano. Scivolando nella neve. Piedi bagnati. Notti che promettono riparo ed esigono coraggio. E speranza insperata. Un momento, in queste notti, per riprendere il fiato e un ‘Chi va là che ghiaccia il sangue. ‘Sum ebreu che scapum’ sono le parole in piemontese che trova il padre di Simonetta, salendo da Brusson, la notte della fuga. Attraversato il bosco, mano nella mano, scivolando nella neve. Sperando. Osando.

Dove iniziano le storie? Dal droghiere dove si compra lo zucchero nella carta azzurra? Quella carta che poi finirà a coprire le finestre dei rifugi? Nell’odore della matita di legno quando si faceva la punta in prima elementare alla scuola ebraica? Nel tonfo degli edifici che cadevano sotto le bombe?

Dove inizia questa storia? In Simonetta che sviene dalla paura mentre la città si frantuma sotto i bombardamenti e la pelle appare sottile e vulnerabile, leggero, leggerissimo involucro che non arriva a proteggere?

Forse inizia nel luglio del 1943.

Io vedevo la mia mamma, una donna compunta e seria, che saltava dalla gioia, e la guardavo dal basso così, da bambina che ero. Papà tornò dicendo che gli uomini si toglievano dal bavero della giacca il distintivo del Partito Fascista, le cimici, e le lanciavano nella Dora.

In questo clima di speranza i miei decisero di andare un mese di vacanza in Val d’Ayas, a Brusson. Facemmo le nostre vacanze, ma con il passare dei giorni ci si rese conto che l’andamento della guerra stava cambiando. Eravamo a Brusson l’8 settembre, data dell’armistizio, una giornata di speranze, ma il peggio doveva ancora arrivare.

Ricordo che un giorno giunse a casa mio padre con alcune persone, tutti agitatissimi, si chiusero in una stanza lasciando fuori noi bambini. I miei decisero che bisognava restare in montagna.
A novembre venne promulgata la Carta di Verona, in cui si sanciva che gli appartenenti alla razza ebraica erano stranieri e nemici, che dovevano finire in un campo di concentramento, i loro beni sequestrati.

Eravamo sempre a Brusson il 4 dicembre, quando un sacerdote arrivò dicendo che i nazisti stavano risalendo la valle d’Ayas e bisognava scappare, c’erano altri ebrei in paese, la mamma e la sorella di Primo Levi, la sig.na Nissim e Vanda Maestro che stavano organizzando il primo gruppo di partigiani. Questo sacerdote diffuse la voce a tutti gli ebrei presenti.

Noi spegnemmo la stufa affinché il fumo non segnalasse una presenza in quell’appartamento, arrotolammo i materassi, ci vestimmo di tutto quanto fosse possibile, riempimmo gli zaini e ci tirammo dietro la porta di casa; saranno state le 4 o le 5, era già buio e ci inerpicammo sulla mulattiera verso il col Ranzola, con noi altri ebrei.”

Simonetta, 7 anni.

Cammina cammina cammina, arrivammo ad una chiesina che si chiama La Croix. Ci fermammo per prendere fiato, appoggiamo gli zaini a terra e sentimmo degli spari. “Chi va là?” Panico, cosa rispondere?

Sum ebreu che scapum” disse mio padre e fu la risposta giusta, ci venne incontro un gruppo di giovani partigiani che si stavano raggruppando a Cesaz, una frazione di Brusson. Ci portarono in una stalla: c’erano tante persone, donne che filavano e facevano a maglia, bambini sulle greppie, uomini che parlavano. Così passavano il tempo questi montanari usufruendo del caldo emanato dagli animali. Tutti ci guardarono molto stupiti, gente di città che arrivava nella stalla. Dopo qualche tempo tornarono i partigiani dicendo che avevano trovato per noi una famiglia che ci avrebbe ospitati per la notte. Salimmo allora ad Estoul e ci trovammo di fronte un signore ed una signora che, combinazione, conoscevamo perché avevano un’abitazione anche a Brusson, nella frazione Fontaine, e la mia mamma andava a comprare le uova da loro. Erano Erasmo e Romilda Vicquéry, con i loro due bambini Eligio e Alda, all’incirca dell’età mia e dei miei fratelli. C’era una stanza sopra la stalla, che godeva del caldo degli animali, due letti dove dormimmo noi donne, mentre gli uomini grandi e piccoli scesero nella stalla.

Il giorno successivo ci fu procurata una diversa sistemazione a Casotto, un alpeggio utilizzato soltanto d’estate. Rimanemmo lì diversi giorni, arrivò poi un’altra famiglia Luzzati di Savona che partì però prima di noi.

Erasmo un giorno allarmato venne a dirci che una voce sosteneva che i tedeschi sarebbero arrivati anche sul nostro versante della montagna. Decidemmo di rimanere perché scendere non era possibile, salire nemmeno, quindi ci sedemmo su una panchetta, sulla parete al di sotto della finestrella, sfacemmo i letti, così che se qualcuno avesse guardato dalla finestrella non avrebbe visto nulla. Questa era la nostra speranza. Erasmo ci lasciò, tornando a casa fece il percorso all’indietro cancellando con la pala le impronte dei suoi scarponi così che non se ne potesse vedere la traccia. Restammo così delle ore, ogni tanto sentivamo dei cani e mia madre diceva ‘ecco arrivano, ci portano via’.

Ci sono ore che si dilatano, si sospendono, cristallizzano il terrore nel respiro che si assottiglia, tolgono voce alla speranza. Ore di movimenti contratti, di parole ghiacciate in bocca. Schiacciati contro un muro, negando la propria esistenza, la propria sostanza. Ore di niente che attende e consuma.
Come riprendere il filo di una storia che avanza a singhiozzi, per spinte e sottrazioni? Come tessere speranza senza lasciare che il desiderio confonda?

Più tardi arrivò Erasmo dandoci il cessato allarme. Può darsi che l’allarme fosse stato dato in coincidenza con l’arresto di Primo Levi e dei suoi compagni sull’adiacente Col di Joux. Può darsi ma non lo sappiamo con certezza.
Dopo questo pomeriggio le proprietarie dei locali, che ce li avevano dati in affitto (credo perché non conosco i dettagli economici), ci pregarono di andarcene. Era diventato troppo pericoloso stare lì.

Decidemmo di tornare a valle, scendemmo sulla stessa mulattiera ghiacciata, tornammo nella casa che avevamo lasciato qualche settimana prima, distruggemmo i nostri quaderni e mio padre, che aveva una buona mano, chiuse con un anellino la u del nostro cognome facendolo diventare Lazzati. Con i nostri documenti contraffatti e tutto quanto possedevamo, prendemmo la corriera fino a Verrès. Il cuore fermo.

A Verrès uomini in divisa vollero vedere tutto il nostro bagaglio, lo aprimmo per terra. Chiesero di vedere i documenti, che paura, ma non si accorsero. Ci accompagnarono alla stazione, salimmo sul treno, mio padre, che non l’aveva mai fatto, li salutò con il saluto fascista e finalmente il treno partì per Ivrea.”

***
La famiglia Luzzati è interamente sopravvissuta alla guerra sotto falso nome e falsa identità nascondendosi nella pianura piemontese. Oggi Simonetta racconta la propria storia nelle scuole consentendo l’accesso a quei luminosi varchi di umanità di cui questa storia è intrisa.

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Per le coincidenze che rendono tenero e affascinante il cammino su questa terra, mi trovavo l’estate scorsa in una chambre d’hotel in Val d’Ayas, a Estoul. Il suo nome è ‘A barma drola’ che in patois significa ‘Il riparo strano’, la fenditura dove ripararti che non ti aspetti. Un antico edificio una volta parzialmente adibito a stalla che è stato sapientemente ristrutturato per accogliere chi desideri la pace e il riparo dell’alta Val d’Ayas. Lì ho ascoltato per la prima volta la storia di Erasmo e della famiglia Luzzati e ho sentito l’eco della parola ‘Giusto’ risuonare con dolcezza dentro di me. Quelle spesse mura che ora offrono ospitalità, allora avevano generosamente garantito riparo ad una famiglia che, impaurita e smarrita, cercava la strada per salvarsi; lì, alla barma, i Luzzati avevano trovato dove posare il capo per una notte e lì avevano trovato chi si sarebbe occupato di loro per le settimane trascorse nascosti lassù.

Per le coincidenze che rendono così piccolo il mondo che abitiamo, ho scoperto che le connessioni tra me e Simonetta Luzzati non si limitavano all’aver abitato a 74 anni di distanza la stessa identica stanza, ma che ci legava una cara conoscenza comune, che mi ha permesso di rintracciarla velocemente e di chiederle la possibilità di ascoltare e raccontare questo prezioso pezzo di storia privata ed italiana. La mia gratitudine a Remigio che mi ha raccontato di suo nonno Erasmo per la prima volta, a Rosita che mi ha permesso di ascoltare Simonetta e soprattutto a Simonetta per la grazia, la delicatezza e il garbo con cui trova le parole per dire.

***

Questa testimonianza è stata raccolta il 27 gennaio 2018, Giorno della Memoria, durante un incontro che Simonetta Luzzati ha tenuto presso Shorashim, un progetto educativo dedicato ai bambini e alle bambine nati in famiglie miste, fondato a Milano da Rosita Luzzati.

La storia di umanità è stata raccontata inoltre all’interno del libro ‘Salvarsi’ di Liliana Picciotto direttrice dell'archivio storico del CEDEC, pubblicato nel novembre del 2017 presso la casa editrice Einaudi.

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