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"Un presidente che ci condanna alla mediocrità"

la lettera di Samuel Heilman, accolto dall'America dopo la Shoah

ll 31 gennaio 2017 Samuel Heilman ha scritto su Haaretz la sua testimonianza di quando, un venerdì 13 di tanti anni fa, sbarcò in America dopo che la sua famiglia era scampata, non senza traumi, alla Shoah in Germania. Riportiamo la traduzione di questa storia di integrazione di successo, che potrebbe essere giudicata rappresentativa delle storie di migliaia di immigrati che hanno raggiunto l'America nel corso degli anni...

Venerdì 13 gennaio 1950, io e i miei genitori arrivammo con altri 1.295 rifugiati a bordo della USS General Stuart Heintzelman al Molo 59 sulla West 19th street di Manhattan.

James Remy, capitano della nave stracolma di passeggeri, chiamò quella “la peggior traversata che abbiamo mai vissuto”, secondo una storia pubblicata il giorno dopo dal New York Times.

I passeggeri della nave soffrivano il mal di mare per le onde alte 14 metri, a volte rimanendo confinati nelle loro zone, che erano ampi spazi divisi tra donne e bambini su un lato dell'imbarcazione e uomini sull'altro, senza la benché minima privacy. Molti bambini scesero dalla nave con il morbillo.

Ma quando i miei genitori (sopravvissuti alla Shoah grazie alla lista di Oskar Schindler ora divenuta famosa) e io (nato in Germania dopo la guerra) mettemmo piede sul suolo USA come rifugiati, tra i pochi designati per diventare residenti permanenti dal Displaced Persons Act (approvato come legge nel giugno 1948 con la firma del Presidente Harry Truman), non avremmo potuto essere più felici.

Io fui scelto nella folla per essere fotografato e apparire sul giornale mentre indicavo una grande pagina di calendario, sotto il titolo: “Venerdì 13? È un grande giorno!”.

La mia fotografia appariva in alcuni giornali, accompagnata da una storia che descriveva com'eravamo fortunati e come grazie a noi il numero degli sfollati a cui era permesso di entrare negli Stati Uniti saliva a oltre 122.000. Il numero definitivo sarebbe stato 415.000.

Fu appena 10 anni dopo che 937 rifugiati – non molto diversi da noi – vennero respinti e la loro nave, la St. Louis, fatta tornare in Germania, dove molti di loro vennero mandati a morte.

L'ombra oscura di quel viaggio fallito aiutò moltissimo i miei genitori a non dare peso alle difficoltà della loro traversata.

Perfino il fatto che io e mia madre rimanemmo accidentalmente chiusi in una doccia mentre la nave superava la Statua della Libertà, con il suo famoso saluto che significava così tanto per noi: “Give me your tired, your poor, your huddled masses yearning to breathe free,” (Datemi le vostre genti stanche, i vostri poveri, le vostre folle accalcate che anelano a respirare libere), tutte cose che noi sicuramente eravamo, non avrebbe potuto minimamente scalfire la nostra felicità.

Molti dei rifugiati come noi andarono avanti a costruirsi una vita, trasformando una nazione di immigrati nel nuovo grande colosso, la più potente e libera casa dei coraggiosi, “da mare a mare splendente".

Mia madre, per la quale la transizione fu più difficile, e che era traumatizzata dagli anni di torture subite e incertezza sulle sue stesse chance di sopravvivere, non lasciò quasi mai la nostra nuova casa a Boston durante i primi sei mesi della nostra vita negli USA. Col tempo avrebbe iniziato a ripetere, come recitano molte preghiere: “God Bless America.”

Lei guardava come tutti noi perseguivamo e trovavamo il sogno americano, e risollevandoci davamo il nostro contributo a far grande l'America.

Crescendo e diventando l'esperto di Scienze sociali ed educatore che ora sono, ho capito, attraverso la mia stessa esperienza di vita e l'esame dei dati di realtà, che le decisioni che i legislatori e i leader americani avevano preso per aprire le frontiere agli immigrati – alle persone che desideravano assumersi il rischio di ricominciare le proprie vite, imparare  una nuova lingua e ricostituirsi – era il vero segreto della continua capacità dell'America di rinnovarsi e battere tutti coloro che sfidano il suo ruolo dominante.

Sono i Paesi che accettano i migranti e si aprono ai rifugiati che, di conseguenza, superano in creatività, produttività e progresso quelle nazioni che si chiudono ai nuovi venuti e che credono di avere tutti i talenti e le capacità di cui hanno bisogno dentro i propri confini.

La fame, lo spirito d'iniziativa e il patriottismo contagioso che i rifugiati nutrono per il Paese che si apre a loro offrendo loro una casa adottiva non può mai essere superato dal sentirsi legittimati alla superiorità che infetta le culture imperniate su coloro che sono già nati al loro interno, hanno paura degli stranieri e limitano l'accesso agli immigrati.

La gente mediocre generalmente evita le competizioni dei nuovi sfidanti e cerca di restringere l'immigrazione. Un presidente che afferma che il suo obiettivo è di rendere l'America ancora grande, ma che firma un atto così significativo per chiudere la porta ai rifugiati - costruire un muro per restringere gli immigrati e ammonire il resto di noi di tacere se protestiamo - sta condannando la propria nazione alla mediocrità.

E coloro che incoraggiano o sostengono tali azioni – che siano all'interno del Paese o all'estero – non sono affatto migliori.

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