Negli ultimi anni la Cina ha disseminato la regione confinaria dello Xinjang di campi di detenzione come quello di Hotan, descritto dal New York Times dell'8 settembre. Quest'ultimo, che è il programma di internamento più vasto del dopo Mao, ha come obiettivo quello di sradicare non il terrorismo, come viene dichiarato, ma l'Islam tout court, patrimonio religioso e culturale della popolazione uighura.
C'è chi, per esempio, finisce dietro la recinzione di filo spinato per avere recitato un versetto del Corano a un funerale. La maggior parte viene costretta letteralmente a cambiare vita dopo una lunga detenzione, lavori forzati e una sorta di lavaggio del cervello. Il fine dichiarato dell'internamento è di "creare dei cittadini leali".
La Cina cerca da molti decenni di limitare la pratica dell'Islam e mantenere un rigido controllo sullo Xinjiang, regione grande quasi quanto l'Alaska, abitata da 24 milioni di persone, di cui quasi la metà è musulmana e spesso uighura. Gli uighuri sono una popolazione la cui religione, lingua e cultura, insieme a una storia di movimenti indipendentisti e resistenza alla dominazione cinese, ha spesso innervosito Pechino.
Dal 2014, anno di intense agitazioni nella regione, a oggi, il programma di internamento è stato rafforzato con misure poliziesche che prevedono anche l'installazione di telecamere nelle case di alcuni cittadini e altre forme di sorveglianza.
I gruppi di difesa dei diritti umani sostengono che alla società uighura sia stato causato un forte trauma unito a una realtà di frammentazione e fratture sociali. Per esempio, tra i cinesi l'identità uighura è oggi vista come una sorta di patologia. Il tutto anche se Pechino nega ufficialmente di commettere abusi contro questo popolo. Il pericolo sottolineato dal New York Times è che tali iniziative possano portare a sentimenti di vendetta in questi cittadini cinesi musulmani.
Ci sono numerosissime prove delle violenze ai danni degli uighuri, comprendenti studi, rapporti, direttive ufficiali, resoconti giornalistici e piani di costruzione dei campi di rieducazione che sono apparsi in rete, oltre naturalmente alle testimonanze di chi vi è stato recluso.