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Katyn

editoriale di Annalia Guglielmi

Sabato 10 aprile 2010. Katyn, un nome che ha per la Polonia il sapore della maledizione. Per molti era un momento atteso da tutta la vita: per la prima volta un presidente polacco poteva recarsi in visita ufficiale nel bosco di Katyn per onorare i 22.000 ufficiali dell’esercito polacco sterminati dai Sovietici nel 1940. Dopo settant’anni i familiari di quelle vittime, che avevano passato tutta la vita lottando perché quella strage fosse riconosciuta dalla storia, potevano piangere i loro cari senza doversi nascondere, per la prima volta la Russia riconosceva davanti ai Polacchi le proprie responsabilità.
A terra tutto era pronto in attesa dell’aereo presidenziale: i reparti dell’esercito che dovevano cantare l’inno polacco, le delegazioni dei parenti delle vittime, deputati, funzionari. Nel bosco era stato costruito l’altare per la Messa, davanti c’erano i cento posti per il presidente e il suo seguito. Alla spalliera di ogni sedia era appeso un ombrello in caso di pioggia. Poi la notizia, lo sgomento, l’incredulità, la disperazione.


Ho assistito attraverso la televisione polacca alla Messa celebrata a Katyn: su ognuna di quelle cento sedie vuote era stata poggiata una piccola bandiera polacca, il sacerdote con la voce rotta dalla commozione, ha aperto la Messa con queste parole: “Non così doveva essere questa nostra celebrazione, dovevamo ricordare i morti di ieri, insieme a loro piangiamo i morti di oggi”.
Su quell’aereo ho perso alcuni amici carissimi, con cui ho avuto l’onore di condividere gli anni della resistenza al totalitarismo comunista: Maciej Płażyński, Arkadiusz Rybicki, Janusz Krupski. Tutti gli amici polacchi che ho sentito in questi giorni hanno perso qualcuno. Negli anni settanta e ottanta, se si era dentro certi ambienti, ci si conosceva più o meno tutti, anche solo di nome.
Su quell’aereo c’erano uomini e donne che avevano lottato, a volte pagando un prezzo molto alto, per la libertà del loro paese. Non erano politicanti di professione, i loro nomi negli anni settanta e ottanta erano pronunciati sottovoce, i loro scritti giravano clandestinamente di mano in mano, e molti di loro erano delle autentiche autorità per chi stava combattendo per una Polonia diversa.


Su quell’aereo c’era uno spaccato della società polacca: sacerdoti, vescovi di tutte le confessioni, familiari delle vittime del 1940, militari (tutto lo Stato Maggiore dell’esercito polacco è perito nell’incidente), giornalisti, politici di ogni schieramento ed orientamento, tutti accomunati dalla volontà di preservare e tramandare la memoria della strage di Katyn.
Infine, su quell’aereo c’erano dei veri simboli della nazione: Ryszard Kaczorowski, l’ultimo presidente polacco in esilio a Londra, simbolo di quella Polonia che non ha mai riconosciuto la legittimità di un regime imposto con la forza e la violenza, e c’era Anna Walentynowicz, la “madre coraggio” di Solidarność, l’operaia che aveva fondato un sindacato clandestino autonomo, il cui licenziamento, nell’estate del 1980, diede l’avvio agli scioperi da cui poi nacque il movimento di Solidarność.

Annalia Guglielmi

Analisi di Annalia Guglielmi, esperta di Polonia ed Europa dell'Est

13 aprile 2010

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